Capitolo sesto

Valdimiro si era trasferito quattro anni addietro in quel bilocale alla fine della relazione con Vanessa dopo quindici meravigliosi anni. La coppia presa a esempio dagli amici, conoscenti, parenti, sempre per mano anche per strada, allegri, con lo sguardo che non abbandonava il volto dell’altro, con il loro amore e l’intesa che emanava una sorte di fluido attorno e con la splendida, educata, Greta. La famiglia del “Mulino Bianco”, l’avevano soprannominata.

Ma allo stesso modo di un veliero senza più vento nelle vele, la loro relazione così intensa e profonda, era precipitata dentro silenzi sempre più lunghi, nella distanza dei corpi sempre più lontani, nell’indifferenza verso l’altro e si era infine arenata come una balena che ha perduto l’orientamento, per ragioni che all’inizio lui riteneva misteriose.

L’incanto si era dissolto e loro non se ne erano accorti e quando se ne resero conto, era troppo tardi. Il fossato che si era scavato non poteva più essere ricoperto. Si erano trovati una domenica pomeriggio seduti accanto sul primo e unico divano comprato assieme, gli occhi puntati sul tappeto dell’Ikea, incapaci tutti e due di trovare il coraggio di dire ciò che ambedue sapevano, da tempo.

Questo Vladimiro non riusciva ad accettare. “Perché è accaduto?”, se lo era ripetuto da mesi, nelle lunghe notti trascorse da sveglio con Vanessa che dormiva dall’altra parte del letto.

A nulla erano valsi i consigli degli amici, dei parenti, i tentativi di rianimare ciò che era già morto, nemmeno la scossa da elettro-shock rappresentato dal senso di colpa per il futuro dolore inflitto a Greta, e neanche l’ultimo disperato tentativo compiuto nel recarsi da una consulente per coppie in crisi. Avevano fatto scena muta, e lei era rimasta lì in silenzio, dietro la scrivania, a certificare ciò che era divenuto evidente, tranne a loro due; l’amore nei confronti dell’altro, non c’era più. Si trovarono di fronte alla porta d’ingresso del palazzo, muti, incapaci perfino di scambiarsi un bacio di saluto. Vladimiro rimase a guardarla svanire lungo la strada, svoltò e scomparve. Greta aveva dodici anni.

Le settimane successive furono un insistente chiedere scusa all’altro perché evitarsi era pressoché impossibile, almeno sino a quando Vladimiro non ebbe completato il trasloco e affrontato nel frattempo il dileggio di alcuni, la pietà di molti, l’indifferenza di altri.

Ambedue persero delle amicizie, ne ritrovarono di nuove, ne recuperarono di perdute, sopportarono le critiche sotto taciute di certe coppie verso l’altro partner; a lui sembrava di essere trasportato agli anni dell’adolescenza.

Vladimiro, con dentro solo un’enorme vuoto “interstellare”, si era aggrappato all’Astoria, al signor Vittorio perfino all’algida e attempata cassiera Iolanda, sempre uguale a se stessa; impomatata e truccata come se dovesse andare tutti i giorni al ballo dell’ultimo dell’anno, le camicie con l’ampia scollatura nonostante avesse passato i sessanta, il make-up eccessivo, le lunghe unghie ricoperte di vividi colori.

Non la vedeva mai arrivare e neanche una volta andare via. A volte pensava fosse un vampiro anche perché Iolanda conosceva la vita di tutti i cittadini, ma la sua rimaneva, per lui, un mistero. Iolanda ascoltò per mesi lo stesso identico sfogo con una finta aria attenta mentre masticava l’ennesimo caucciù.

Vladimiro dopo la separazione, ed essere stato costretto ad abbandonare la strada sicura sino ad allora percorsa, era precipitato in un maelstrom che lo tratteneva in fondo e lui non faceva nessun sforzo per risalire.

Le uniche certezze rimaste erano il lavoro all’Astoria e la presenza di Greta da cui non poteva, e non voleva, abdicare, mentre il futuro era ora oscuro come negli anni dell’adolescenza; era ritornato indietro al termine delle superiori ancora indeciso della direzione da dare alla sua vita, privo di prospettiva.

A volte gli sembrava di sentire e vedere il proprio corpo separarsi dalla mente, compiere i gesti quotidiani e “lui” l’osservava accomodato su una sedia. Allorché il corpo usciva per recarsi all’Astoria, “lui” continuava a rimanere seduto al tavolino, la tazzina vuota con il cucchiaino dentro davanti.

Tutti gli arredi comprati con Vanessa erano rimasti là, compresi molti oggetti che gli appartenevano e abbandonati là senza una precisa ragione o scelta; erano appartenuti a un’altra persona. Si era così trovato nella necessità di dovere arredare il nuovo appartamento che era completamente vuoto.

Le sue risorse e il suo stato d’animo non gli permisero di acquistare oggetti e mobilia moderna, tranne i due letti gemelli per lui e Greta.

Tutto il resto lo raccattò ai mercatini dell’usato, dalla vicina parrocchia, da amici e l’abitazione, alla fine risultò un caotico coacervo di stili, materiali, colori che il suo amico Rino, dopo averlo aiutato a portare su il frigo commentò ridendo: “Non è un po’ troppo hippy?”.

Vladimiro, lasciata l’auto a Vanessa, aveva trovato una Fiat 600 azzurrina appartenuta a un anziano a cui non avevano rinnovato la patente e che Greta soprannominò, appena la vide, “Zitella”. Iniziarono così per lei le peregrinazioni tra i due genitori, dopo i primi mesi trascorsi sempre dalla madre.

Sia lui, sia Vanessa erano stupiti della scelta della figlia di trascorrere un mese alterno da uno dei due e della sua apparente tranquillità. Ma, entrata nel vortice dell’adolescenza e l’ingresso alla scuola superiore, travolsero quella illusoria serenità.

Lui, senza rendersene conto, spostò la propria esistenza nel passato, come se il corpo fosse divenuto una macchina del tempo; un vasto periodo che partiva dagli anni ’50 e arrivava fino a metà del ’90 e da cui pescava canzoni, personaggi più o meno famosi, storie, avvenimenti, film di cui era stato spettatore distratto oppure attento.

Un po’ alla volta, giorno dopo giorno, aveva riempito l’appartamento di oggetti, gadget, soprammobili, dischi, manifesti, libri, sovente acquistati ai mercatini delle pulci, oggetti a volte inutili o inservibili, spingendosi addirittura a decine di chilometri da Donegallo.

Un vecchio telefono con la rotella di bachelite nera si trovava avvitato al muro vicino alla porta; accanto pendeva la bandiera di Cuba; un poster dei Doors era attaccato con le puntine sulla porta del bagno; il giradischi, con la lunga fila di LP in vinile ordinati per alfabeto, s’allungava sotto il basso mobile lungo la parete; fotografie in bianco e nero sovrapposte le une alle altre; ritratti di poeti, cantanti, gruppi musicali, attrici del cinema muto si sovrapponevano e a volte scomparivano sotto altre immagini; il modellino senza una ruota di un VW T1 psichedelico; “Harold e Maude” che lo fissavano sulla parete di fronte al letto; la sveglia da caricare con i due grossi battacchi sul comodino. Quando Greta si rese conto del cambio di abbigliamento del padre, disse «Vintage! Sei diventato Vintage anche tu.» Da allora, lei lo chiamò sempre così.

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