Capitolo settimo
«Posso farti una proposta?» chiese Vladimiro alla figlia semi addormentata, apparsa a mezzogiorno della domenica dopo il rientro notturno del sabato sera, la tazza di latte caldo ancora tra le dita.
Ma lei non rispose anche se oggi si sentiva più tranquilla. Due bei voti in settimana; la serata del sabato sera passata in allegria; Enry, al pub, che dall’altro tavolo con lo sguardo la cercava, osservando al contempo se le sue battute scatenavano le risa degli amici, per vedere la sua reazione.
Sorrise ripensando alla serata appena trascorsa. Non poteva negare che gli piacesse nonostante sapesse molto bene che non era certo il tipo da instaurare relazione serie, e forse neanche capace di innamorarsi.
Lei, dopo le brevi storie d’amore avute in passato, la perdita della verginità che aveva con forza cercato perché era rimasta l’ultima femmina della classe e dopo che anche Marco l’aveva lasciata, con un sms, aveva deciso di prendersi una pausa dall’amore; le due esperienze vissute l’avevano lasciato dei detriti che ancora non era riuscita a smaltire.
Vladimiro guardò la figlia in attesa di una risposta, poi, persa ogni speranza, iniziò a prepararsi un secondo caffè.
Greta, immersa nel flusso dei pensieri, rivide la scena della “prima volta”: era nitida e viva, malgrado fossero passati due anni; le pareva di percepirne persino gli odori.
Si chiamava Marco. Era uno dei tanti ragazzi che frequentavano la vasta e composita compagnia a cui era aggregata. Le loro famiglie vivevano a Donegallo da generazioni: con alcuni di loro si frequentavano dall’asilo e in seguito divenuti compagni di classe alle elementari e alle medie.
Si ritrovavano in parrocchia, assieme ai figli di immigrati provenienti da nazioni e continenti così lontani che a volte parevano appartenere al mondo delle favole, a pianeti esterni al sistema solare, ma che ormai erano divenuti parte della loro vita e di cui condividevano gli stessi gusti, seguivano la stessa moda, parlavano lo stesso gergo, malgrado l’ostracismo nei loro confronti ancora presente in molti genitori.
«Greta? Mi hai sentito?» La voce del padre interruppe i suoi pensieri.
«Sì, scusa, dimmi». Lo guardò.
«Stavo pensando…se ti andava…» iniziò lui quasi balbettante e timoroso di suscitare in lei una reazione negativa e dai toni acidi.
Greta, innervosita delle titubanze e delle lunghe pause del padre, del modo di prendere sempre troppo alla lontana ciò che voleva dirle, scattò: «Vintage!» esclamò.
«Ti andrebbe di andare da un… psicologo?» disse Vladimiro tutto d’un fiato senza fare caso al tono della replica.
Lei lo guardò stupita, non sapendo se ridere o piangere. Sapeva molto bene che suo padre le voleva bene, e che, al contrario di altri genitori, non la teneva con il guinzaglio troppo corto e che questo suscitava nelle amiche, un po’ d’invidia. Ma lei, dopo la separazione con la madre, aveva perso fiducia nel padre, lo vedeva come uno sconfitto, un fallito, senza peraltro conoscere le reali ragioni del suo risentimento e della rabbia che sentiva e di cui non capiva i motivi, scaricando così contro di lui, il disagio adolescenziale che stava vivendo.
«Pensi che io sia matta? Vuoi che mi imbottisca di psicofarmaci del cazzo!»
«Nessun psicofarmaco. Solo che non ti vedo serena, sei in perenne conflitto con me, con la mamma, forse con il mondo, e io non riesco a trovare il modo per aiutarti… mi sembra di sbagliare tutto, con te».
«Perché non ci vai tu, dallo psicologo?» replicò Greta con più sarcasmo del solito.
«Ci sono già stato», rispose non raccogliendo la provocazione.
Si sentì spiazzata, ma non lo diede a vedere.
«E da chi dovrei andare, da quella flippata che sta nello sgabuzzino in fondo al corridoio a scuola, dove ti possono vedere tutti? Siete dei geni», disse con amarezza e proseguì «sai la pubblicità con i miei compagni. Allora sì che potrei chiudermi in un convento».
La rabbia le aveva reso lucidi gli occhi.
«Non è da lei che sono andato. E comunque la Bernabei riceve solo il pomeriggio. Non ti vedrebbe nessuno. Ne ho trovato uno diverso; lo ha consigliato un’amica della mamma. Mi vuoi almeno ascoltare. Ti vogliamo solo aiutare, piccola…».
«Piantala di chiamarmi piccola! Vuoi i particolari?» aggiunse alzandosi e ormai incapace di trattenere le lacrime si diresse verso la sua stanza.
«Siete dei mostri» e andò a buttarsi sul letto ficcando la testa sotto il cuscino, il corpo scosso dalle lacrime.
Vladimiro attese qualche minuto. Si alzò, si avvicinò al letto, si sedette e iniziò ad accarezzarle la testa.
Marco passò a prenderla una sera con la Mercedes nera di suo padre, un modello non molto recente, ma tenuta in maniera impeccabile e che lui aveva iniziato a guidare quando ancora non aveva la patente.
Greta, senza ammetterlo fino in fondo, essere vista su quell’auto la faceva sentire più grande, quasi fosse una diva.
Sfilare lungo il viale principale il sabato sera seduta accanto a lui, la rendeva felice e perfino il sentimento che provava, veniva amplificato.
Dopo due mesi durante i quali avevano iniziato a uscire insieme ed essere di fatto considerati una coppia, ed essere passati in breve a baciarsi e ad accarezzarsi sempre più a fondo con molta naturalezza, lei sapeva che quella sera l’avrebbero fatto.
Per Greta provare a esplorare piaceri e desideri fino ad allora sconosciuti, di cui aveva solo sentito i racconti di Samantha, l’aveva fatta sentire più matura, anche se a volte l’impazienza e irruenza di Marco, la intimorivano.
Ma voleva superare lo scoglio della “prima volta” e in preda a sensazioni ed emozioni contrastanti, uscì dal portone della palazzina e nell’attimo in cui aprì la portiera della Mercedes, mise da parte tutte le perplessità. Lui guidava nervoso e parlava più del solito. Greta, che non lo stava ad ascoltare, scrisse a Samantha: “Partita!” aggiungendo l’emoji del piacere e dell’amore.
Era stata la sua amica Samantha a guidarla nella preparazione del dress-code più adatto per quella sera; slip non troppo stretti, facili da togliere; reggiseno da aprire sul davanti, per evitare momenti di stasi; camicetta con bottoni semiautomatici comodi da aprire; golfino senza bottoni; gonna corta, ampia, per avere le gambe libere; no calze, malgrado fosse ancora primavera; le sneakers per non ostacolare l’uscita degli slip; capelli raccolti in una coda.
Marco spense il motore dell’auto. Il parcheggio del cimitero, semi coperto da alberi e da siepi, era il luogo preferito per gli appuntamenti indiscreti.
Greta, deglutì, scrisse a Samantha. “Ci siamo!” e mise via il cellulare nella borsetta. Era pronta.
Un’altra auto, lussuosa, era parcheggiata in fondo, dove la luce dei lampioni non arrivava. Lui si girò e la baciò. Lei, nervosa e rigida, lo lasciò fare e cercava con le mani di abbracciarlo, di concentrarsi e di lasciarsi andare.
Marco continuava ad avere l’iniziativa; le dita le sfioravano i seni, mentre Greta, che sentiva salire l’eccitazione e il piacere, faticava a posare le mani sul suo corpo.
«Andiamo dietro» disse Marco.
Lei deglutì e non rispose; ripassò le “nozioni” ricevute da Samantha. “Aspetta che sia duro del tutto. Se non lo fa lui, cosa che non credo, prendiglielo e portalo all’imboccatura. Mettigli le mani sulle chiappe, e tira. Il resto verrà da sé.”
Marco si era levato in fretta e furia i blue-jeans e i boxer firmati. Senza sapere bene il motivo, Greta era contenta che non ci fosse troppa luce; si sfilò gli slip e si distese sull’ampio sedile che, a causa della serata calda, risultava appiccicoso. Aveva appena fatto in tempo a sistemarsi i capelli che se lo trovò sopra. Prima che avesse il tempo di pensare, l’aveva penetrata.
La fitta che l’attraversò la colpì meno dello stupore provato per la velocità dell’atto e mentre il corpo e la mente iniziavano a essere invasi dal piacere, lui si tirò indietro e con un gemito, eiaculò sulla gonna, sulle cosce, sul sedile.
Continua… la prossima settimana