Capitolo ottavo

Vladimiro arrestò la Zitella nel parcheggio interno dell’Astoria, accanto al consunto, grande portone di legno sbarrato e non più usato da anni che dava sul palcoscenico. Entrò nell’atrio del cinema. Vide la luce della sala accesa e si diresse senza esitazione lungo il corridoio e si accorse subito del vestito riverso sul bordo del palco. Pareva un cappotto abbandonato.

“Che strano” pensò. Era sicuro che la sera prima, lì non fosse rimasto alcunché.
Accelerò il passo, incuriosito e quando gli si palesò davanti il signor Vittorio disteso, gli occhi aperti e il sorriso sulle labbra, si bloccò.

Lo osservava come si guarda qualcosa cui non si vuole credere. Non aveva mai pensato il signor Vittorio morto. Era parte integrante dell’Astoria, tutt’uno con il teatro; lo riteneva indistruttibile, fatto di ferro e cemento e non di carne e ossa e si chiese: “Ma l’ho conosciuto veramente?”

Si rese conto che con Vittorio non si era mai stabilita una vera e profonda amicizia, malgrado i tanti anni che avevano trascorso assieme. Entrambi, nei confronti l’uno dell’altro, avevano mantenuto un certo distacco, un riserbo, ma mai era venuto meno il rispetto. Solo una sorta di timidezza aveva impedito a loro di conoscersi meglio.

Le conversazioni avevano riguardato il lavoro, i film e le solite considerazioni banali che si fanno sul tempo atmosferico, sul governo o lo sport. Solo in occasione della nascita di Greta e della successiva separazione di Vladimiro, il signor Vittorio aveva abbandonato il proverbiale distacco per esprimergli le sue congratulazioni per l’acquisita paternità e in seguito manifestando il suo dispiacere quando venne a sapere del loro distacco.

Il corpo del signor Vittorio era immobile e inerme. Non c’era più nulla da fare. Si voltò, raggiunse il telefono in biglietteria e chiamò il 118.

Estrasse il cellulare. «Signor Goffredo? Sono Vladimiro. Buongiorno. Il signor Vittorio si è sentito male… mi dispiace doverle comunicare la triste notizia… ma è morto, penso un malore, il cuore…sì… certo, condoglianze, d’accordo, appena arriva mi chiami pure… arrivederci».

Si avvicinò alla grande porta a vetri. Ora avvertì il freddo del foyer. Alle due e mezza doveva arrivare il camion del gasolio.

«Prego Vladimiro. Buongiorno» disse Goffredo.
Vladimiro entrò nell’ufficio appartenuto al signor Vittorio.
La sorella Laura sedeva dietro la scrivania, il volto livido.
Indossava un pesante cappotto color cammello di ottima fattura, abbottonato fino in cima, in evidente sofferenza a causa del freddo che regnava nella stanza, lo sguardo puntato su fogli aperti davanti a lei sulla scrivania.

Vladimiro, avvertito dell’incontro il giorno stesso del funerale del signor Vittorio, aveva trascorso la notte insonne, preda di cupi pensieri. Sapeva molto bene l’avversione che i due figli nutrivano nei confronti dell’Astoria, cosa che aveva fatto soffrire da sempre il signor Vittorio, e temeva quello che Goffredo e Laura gli avrebbero comunicato nel corso del colloquio. Ma non poteva opporsi a nessuna loro decisione, qualsiasi essa fosse stata.

Goffredo si accomodò accanto alla sorella, indossando un tirato sorriso di circostanza; Vladimiro si sedette di fronte a loro.

«Signor Vladimiro, verrò subito al sodo. Intanto la ringrazio per tutto ciò che ha fatto per nostro padre e il teatro. Lei sa molto bene, penso, che io e mia sorella non nutriamo nessun interesse per il cinema. Abbiamo fatto altre scelte che nostro padre conosceva bene. Allo stesso tempo, non abbiamo mai preteso che lui, malgrado l’età, gli scarsi guadagni, per non dire le perdite che il cinema in tutti questi anni ha accumulato, chiudesse l’attività; era la sua vita».

«Ma ora» continuò prendendo fiato «siamo costretti a prendere delle decisioni, che ci rendiamo conto, difficili, ma che non possiamo rimandare, per le ragioni che le ho appena esposto. Venderemo lo stabile e il nuovo proprietario deciderà cosa farne. La programmazione chiuderà entro fine mese. Naturalmente, le verrà corrisposto tutto ciò che deve avere».

Vladimiro lo guardava incapace di replicare. Il peggio si era avverato. Si riprese.
«Sì, certo, capisco bene. Il signor Vittorio non mi metteva certo a conoscenza delle difficoltà economiche, ma sono qui da tanti anni e me ne sono reso conto anch’io».
Cercò di assumere un’aria la più distaccata e razionale possibile. «Se non c’è altro…».
«No. Per ora è tutto. Verrà contattato da una persona del mio ufficio per tutte le pratiche».
Allungò la mano per salutarlo. Lui la strinse. La sorella non lo guardò.

Uscì e nell’atrio incontrò un uomo ben vestito, che andava di fretta e che non lo salutò. L’uomo, che solo distrattamente aveva notato Vladimiro anche perché non lo conosceva, si diresse senza esitazione verso l’ufficio di Vittorio e, vista la porta aperta entrò.
«Signor Bonaventura, buongiorno!» disse Goffredo e solo ora la sorella si alzò sorridente e gli strinse la mano. L’uomo ricambiò il saluto, si sedette e disse: «Allora, procediamo?»
«Sì», risposero entrambi.

Goffredo proseguì: «Il progetto che avete preparato è stato approvato, in via per ora confidenziale, anche dall’amministrazione comunale. Il sindaco non pone veti. L’edificio, del resto, non rientra nella normativa per la salvaguardia dei monumenti storici e mantenere intatta e valorizzarne la facciata è un punto a nostro favore e che sia un’impresa di Donegallo come la vostra ad acquisirne la proprietà e concludere il processo di riqualificazione, non fa che rendere fattibile la vendita e il cambio di destinazione d’uso. Non resta che definire i dettagli amministrativi e l’affare lo si può considerare concluso».
«Non ci resta che brindare» disse raggiante la sorella.
«Certo» rispose il costruttore, soddisfatto e felice di aver chiuso la trattativa e concluso l’affare.

Il nuovo centro commerciale che sarebbe sorto sulle macerie del cinema Astoria avrebbe portato benefici a tutta la cittadinanza, così avrebbero riportato i giornali, e un sacco di soldi nei loro conti correnti; era stato previsto un grande e comodo parcheggio.

Vladimiro si trovò per strada, le mani in tasca, immobile sul marciapiede, ancora non del tutto sicuro di ciò che era avvenuto. Aveva perso il lavoro di una vita.
“E ora?” si chiese.
Aveva bisogno di un bicchiere di vino. Raggiunse un bar fuori mano, certo che nessuno l’avrebbe riconosciuto.
«Un bianco» ordinò.

Si andò a sedere nel tavolino in fondo alla sala. Da lì poteva tenere sott’occhio la porta del caffè. Se fosse entrato qualcuno di sua conoscenza, doveva essere pronto a nascondersi. Non aveva voglia di parlare dei fatti suoi, anche se in paese, molti, dopo l’apertura della sala multiplex, lo scarsissimo pubblico che frequentava l’Astoria e l’età avanzata di Vittorio, pensavano che l’Astoria avesse i giorni contati.

Tra la gente di Donegallo si era sparsa la voce, e tutti si chiedevano che fine avrebbe fatto il cinema. Le ipotesi più assurde e stravaganti erano circolate di bocca in bocca. In realtà, solo gli anziani avrebbero avvertito la sua mancanza, come presagio che la chiusura dell’Astoria anticipasse e annunciasse la fine delle loro vite.

Vladimiro si ritrovò seduto al tavolo della cucina quasi senza essersi reso conto di esserci arrivato. Suonò il telefono di casa. Senza domandarsi chi potesse essere, nonostante quasi nessuno lo chiamasse al numero fisso, si alzò e andò accanto alla porta; sollevò la cornetta.
«Pronto» rispose.
«Ciao. Come va?» chiese Vanessa.
Non riuscì nemmeno a stupirsi di udire la sua voce. Le rare volte che si sentivano erano tramite cellulare ma ora non aveva voglia di chiedersi il perché e soprattutto, di parlare con lei. Ma rispose. «Chiudono l’Astoria» disse quasi freddamente.
«Che peccato… E tu?»
«A casa».
Lei non rispose. Si udivano solo i loro respiri.
«Ci sei ancora?» chiese lei.
«Sì».
«Mi dispiace, molto. Se vuoi che Greta si stabilisca da me, lo sai che non è un problema» rispose lei a bassa voce avvertendo il suo distacco.
«Sì, lo so. Per ora lasciamo le cose così. Poi vedremo».
«D’accordo. Ti devo lasciare. Fammi sapere, se hai novità. Conosci tante persone. E anch’io spargerò la voce. Sono sicura che troverai qualcosa. Ciao». Avrebbe voluto dirgli parole d’incoraggiamento, ma si trattenne. Il distacco non si era ancora ripianato, nonostante fossero trascorsi cinque anni.
«Sì certo. Grazie. Ciao».

Vladimiro appese la cornetta di bachelite nera e rimase a guardare il telefono senza pensieri, come se si aspettasse che dal suo trillo potesse arrivare una telefonata che gli dicesse che non vero, era tutto uno scherzo. Il signor Vittorio non era morto, il cinema non era stato chiuso, lui lavorava ancora lì; non era cambiato niente. Ma il telefono rimase muto. Ringraziò, parlando tra sé e sé, Vanessa della telefonata e andò in cucina a prepararsi l’ennesimo caffè della giornata.

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