Drive my car, ultimo lungometraggio di Ryūsuke Hamaguchi, è grazia, intimità e mistero, espressi attraverso una regia sottile e delicata.

Il film è stato candidato agli Oscar 2022, che si terranno nella notte tra il 27 e il 28 marzo, sia come miglior film straniero, che per miglior film, oltre che per la migliore regia. L’evento è raro anche se con ogni probabilità lo sarà sempre meno dopo la vittoria in categoria di Parasite di Bong Joon-ho nel 2020 (prima volta assoluta per un film non in lingua inglese) e chissà che non possa ricapitare per Drive my car.

Ryūsuke Hamaguchi è un regista di origini giapponesi che si è imposto con una fulminea escalation anche nel panorama occidentale: nel 2018, infatti, si fa notare con Asako I & II, che viene selezionato in concorso al festival di Cannes, nel 2021 vince l’Orso d’Argento al Festival di Berlino per Il gioco del destino e della fantasia e, lo stesso anno, trionfa a Cannes aggiudicandosi il premio alla miglior sceneggiatura per Drive my car, ora agli Oscar.

La storia di Drive my car è tratta da un racconto di Haruki Murakami inserito nella raccolta Uomini senza donne e narra della vita di Yusuke Kafuku, attore e regista teatrale che, a due anni dalla morte della moglie, accetta di mettere in scena lo “Zio Vanja” di Checov per un festival teatrale con sede ad Hiroshima.

La lentezza è elemento fondante del film ed è esaltata dalla comparsa dei titoli di testa a quaranta minuti da inizio pellicola, che separano la vita di Yusuke con la moglie dalla sua vita da vedovo. Il rapporto della coppia è proposto in maniera tenera ed estrosa. Nella prima scena i coniugi, nella penombra della camera da letto, discorrono sugli eventi di una storia creata da Oto, la moglie. La magia del buio descrive perfettamente il legame tra i due, dove l’intimità è creativa e trattata con serietà. Le sequenze successive fanno emergere alcuni problemi che compromettono l’unione della coppia, all’apparenza di una solidità adamantina, e scuotono Yusuke, che però non riesce a confrontarsi con Oto per via della sua inaspettata morte.

La seconda parte riguarda la vita di Yusuke a due anni dal lutto, intrisa di malinconia. L’ambiente nuovo del festival, il dramma di Cechov e il contatto con la giovane autista assegnatagli dalla produzione riescono gradualmente a staccare Yusuke dall’indolenza che ormai lo caratterizza e infine ad affrontare e consumare il suo dolore.

La macchina, ripresa anche nel titolo, diventa quindi emblema della ricerca e dell’affidarsi ed accoglie le tragedie dei due personaggi. Si tratta di una Saab 900 Turbo, a cui Yusuke tiene molto e che si presta come teatro di evoluzione personale, ospitando il silenzio del presente spesso rotto dall’emergere del passato.

Il finale è fiacco e di non grande impatto, le sequenze che si alternano non sempre hanno una funzionalità precisa e l’impressione che si ha è quella che il film rincorra il racconto di Murakami. Questo, unito alla durata, potrebbe far risultare Drive my car un po’ pesante, ma la delicatezza del film ha una brillantezza inusuale.

Concludendo, Drive my car è un film intimo ed etereo, capace di esprimere il mistero dell’amore e lo strazio del dolore con inquadrature studiate e loquaci. Ha riscontrato numerosi consensi tanto da essere favoritissimo per l’Oscar al miglior film straniero, categoria in cui è presente anche È stata la mano di Dio del nostro Paolo Sorrentino.

(Leonardo Ricci Lucchi)