Capitolo nono
Vladimiro, parcheggiata la Zitella il più lontano possibile dall’istituto, così che Greta potesse salirci sopra senza essere notata dagli amici, cercava, tra la folla di ragazzi che sciamava dall’uscita della scuola, la figura della figlia.
Il branco si allargò, si formarono gruppetti, qualcuno si teneva per mano, altri prendevano biciclette, motorini, per dilagare sulla strada, sul marciapiede. Individuò Greta abbracciata a un ragazzo nella tipica uniforme da rapper, poco più alto di lei. I due si staccarono, dandosi un bacio leggero sulle labbra e Vladimiro sentì montargli in corpo un moto di antipatia. Greta aveva intravisto la Zitella e si stava avvicinando seria in volto; Vladimiro l’accolse con un sorriso di circostanza per cercare di dissimulare l’insofferenza.
Lei aprì un po’ a fatica la portiera controvento della vecchia auto, brontolando come sempre per la scomodità del basso sedile e non rispose al saluto del padre.
La Zitella vibrò tutta; il borbottio dell’asmatico motore era l’unico rumore percepibile nell’angusto abitacolo. Greta si mise le cuffiette dell’I-Phone. Spinse play, il volume al massimo; il mondo esterno scomparve. Aprì la galleria delle foto. Sapeva bene cosa avrebbe visto; solo selfie di sé stessa o con Samantha. Neanche un’immagine del padre, della madre.
“Che merda di figlia sono” pensò.
Erano centinaia. Le fece scorrere. Più le guardava, più faticava a riconoscersi. Non ne trovò nessuna che corrispondesse realmente a ciò che sentiva di essere ora. Le selezionò tutte e le cancellò. Lo schermo tornò bianco, ma non aprì bocca.
Padre e figlia erano in silenzio stampa; così si dicevano nel momento in cui la comunicazione fra di loro si interrompeva. Entrambi, dentro di loro, innaffiavano fiumi di parole che rimanevano inespresse nel loro germogliare, per via della rabbia e del diniego verso l’altro.
Greta scrisse a Samantha. “Giornata di merda partita ora per andare dallo strizzacervelli”.
La risposta dell’amica non si fece attendere. “Si chiama?”
“Che importa… Bentivogli. Giuro che ci vado solo oggi e poi lo mando a fanculo”.
“Sì, fai bene. Cazzo combina tuo padre?”.
“Non lo so, non lo sopporto più. Mi sa che migro da mia madre, questa volta per sempre”.
“Osvaldo? rompe?”
“Sì insopportabile”.
“Un giro con lui lo farei volentieri”.
“Ma per favore Sammy, da museo delle cere. Un altro sfigato, i maschi non capiscono un cazzo”.
“Compreso Enry?”
“E’ di passaggio, ma va bene così. Solo sesso, niente altro”.
“Cosa ha che non va?”
“Ne ho le palle piene dell’amore, lo sai”.
“Per quello che è successo fra i tuoi genitori?”
“Non ne parliamo più, che si fottano tutti”.
“Scusa Gre”.
“Scusa tu sono incazzata nera, dal tipo faccio scena muta così smetto subito. Ti lascio che sono arrivata, ciao Sammy”.
“Fammi sapere cosa dice il senile”.
“Ok”.
“Non so se lo farò” pensò Greta provando allo stesso tempo un sentimento d’invidia verso l’amica.
Le voleva bene; c’era sempre quando si doveva sfogare, aveva bisogno di un consiglio o voglia di gelato al pistacchio; benché avessero la stessa età, per lei era una sorella maggiore. Sammy aveva bruciato tutte le tappe in anticipo; era sempre sicura di sé, la faceva ridere, non si faceva mettere i piedi sulla testa, anche se a volte era troppo sfacciata e tendeva a esagerare. Ma questo aspetto del suo carattere glielo perdonava. Riuscì a stento a trattenere una lacrima.
Vladimiro arrestò l’auto nel parcheggio alberato.
«Arrivati».
L’unica parola detta nell’ultimo quarto d’ora. La tensione che saturava l’abitacolo aveva raggiunto una tale densità, come fosse invasa da un’impalpabile sostanza gelatinosa ultraterrena, impedendo così ogni movimento.
Uscirono e lui s’incamminò davanti alla figlia, senza fermarsi, verso la porta di un palazzo dall’aria signorile e premette con decisione il campanello del dott. Guido Bentivogli.
Ora avvertiva accanto a sé il corpo di Greta.
Lo schiocco aprì la porta. Entrarono. Lo psicologo li attendeva dinanzi allo studio.
«Buongiorno. Prego, Greta».
Si fece da parte, e Greta, rigida come un burattino di legno, entrò, lo sguardo sulle piastrelle, la bocca chiusa.
«Stia tranquillo. A più tardi» disse lo psicologo a Vladimiro, impalato e il volto rigido, e svanì dietro la porta.
Vladimiro si trovò di nuovo nel parcheggio.
Scrisse sul vecchio cellulare ereditato da Greta “Arrivo”.
Mise in moto la Zitella e partì, il viso contratto, l’ansia che lo attanagliava, la mente vuota concentrata solo sulla guida; non aveva molto tempo. La nebbia della mattina si era diradata e la cerea luce del sole la ingialliva; ricordava un acquarello di Munch.
I palazzi della periferia, la “Nuova Donegallo”, che raggiunse in breve, erano celati dall’enorme centro commerciale costruito poco distante. La sua impressionante mole di vetro e cemento nascondeva alla vista con la vastità delle sua cubatura il profilo lontano degli alti argini del Po.
La multisala cinematografica, il vasto parcheggio, l’edificio a ferro di cavallo che conteneva i negozi, avevano soppiantato e coperto la campagna, i radi alberi che erano sopravvissuti, i campi ormai divenuti improduttivi e perciò abbandonati.
Lui, che aveva iniziato a frequentare quel luogo nell’ultimo anno, si sentiva tutt’ora a disagio, davanti a tutto quello spazio vuoto in attesa perenne di persone.
Scese dall’auto, e dopo avere indossato gli occhiali scuri, s’avviò spedito e contratto, quasi fosse un ladro, verso l’ingresso del palazzo accanto al parcheggio, l’ultimo della fila prima del centro commerciale.
Suonò il campanello su cui era scritto “V.S” e appena il portone di vetro si aprì iniziò a salire veloce i quattro piani di scale; troppo rischioso usare l’ascensore, rischiava di essere visto.
Raggiunse il pianerottolo deserto del piano e mentre cercava di riprendere fiato, suonò il campanello, con una velocità quasi fosse un concorrente di uno di quegli stupidi programmi di quiz televisivi. Sulla soglia apparve lei.
«Ciao, entra».
Vladimiro entrò nell’appartamento sfiorando con un bacio leggero una guancia di Volya che indossava una delle sue vistose vestaglie a fiori.
«Non ho molto tempo» disse lui sedendosi.
«Caffè?»
«Sì, grazie».
La tensione che aveva accumulato portando Greta dallo psicologo stava svanendo e Vladimiro iniziò a rilassarsi. Ora voleva solo godersi la serenità di quel momento. Osservò Volya prendere la moka e il barattolo del caffè dal pensile e indaffararsi nella preparazione.
Vladimiro non riusciva a trattenere la felicità che provava ogni volta nel vederla. Lei mise la caffettiera sul fuoco e appoggiò la tazzina sulla tavolo. Poi si sedette di fronte a lui. Lui le fece una carezza; non erano necessarie parole.
Volya gli strinse la mano e se la portò sulla guancia, senza togliere lo sguardo dai suoi occhi. Vladimiro era un cliente speciale.
Era venuto da lei una sera di un anno addietro. Non aveva detto una parola. Solo il proprio nome. Volya aveva già avuto clienti che si sentivano all’inizio in colpa per andare a cercare una prostituta anche se non avevano una moglie, una fidanzata, una compagna, guidati solo dal bisogno di sfogare il desiderio che sentivano in loro, di ritrovare il piacere del sesso e, quasi sempre celato, il bisogno profondo di sentirsi abbracciare, come fossero bambini sperduti.
Ma Vladimiro era così imbarazzato che era rimasto un’ora seduto e muto davanti alla tazzina di caffè vuota; lei, nel frattempo, si era fatta una doccia, preparata la cena, e truccata in attesa del prossimo appuntamento.
Vladimiro pagò la cifra stabilita senza neanche averle sfiorato una mano.
Solo alla terza visita, ebbero un rapporto completo.
Vladimiro si era gettato su di lei come se fosse un soldato che si avventa dentro una trincea con la baionetta sguainata e Volya si era protetta con le braccia quasi spaventata dalla sua irruenza.
Era abituata anche a questo; uomini che le si buttavano addosso togliendole il respiro e perfino il tempo di spogliarsi tanto era grande il bisogno insoddisfatto.
E lei applicava tutto il mestiere imparato per portarli al massimo del godimento.
Ma Vladimiro, più che possederla, sembrava quasi che desiderasse fondersi con le sue membra tanto l’abbraccio era passionale; le mani la stringevano forte, le labbra la mangiavano; la rivoltava da tutte le parti tanto che le venne da ridere e nelle pause improvvise che si concedeva, Volya si metteva le dita sulle tempie a simulare un giramento di capo. Le sembrava di essere in cima all’otto volante di un parco di divertimenti. Vladimiro la fissava quasi incredulo di vederla.
Ma oggi lei avvertì che non era venuto perché la desiderava. Il suo sguardo tradì da subito l’irrequietezza che lo teneva avvinto e contraeva gli arti, il busto, il viso.
«Che c’è?» chiese Volya, allungando una mano sulla sua.
«Il signor Vittorio è morto. L’Astoria chiude. Rimarrò senza lavoro».
Un mesto sorriso si fece strada sulle labbra di lei. «Mi dispiace. Molto». Si alzò, si andò a sedere a cavallo delle sue gambe, e lo strinse in un lungo abbraccio.
Continua… la prossima settimana