Capitolo 11
La caligine che persisteva da settimane sulla pianura era stata spazzata via da un vento freddo dell’est e il centro di Donegallo appariva ora in tutta la sua malinconica essenza. Malgrado fosse un giorno feriale le strade del centro erano semi vuote, tanto che la cittadina assomigliava al set cinematografico abbandonato di C’era una volta il west. Si poteva persino immaginare che ci fossero le impalcature per sostenere le finte facciate lungo le vie.
Nella lunga e quasi perenne stagione nebbiosa gli abitanti si rinchiudevano nei bar per proteggersi dall’umidità onnipresente, a giocare a carte, a biliardo, a scambiarsi notizie e pettegolezzi. Oppure s’incontravano tra le bancarelle del mercato settimanale a commentare l’ultima partita di campionato, matrimoni che finivano, le nascite divenute sempre più rare, mentre i “grandi vecchi” scomparivano a uno a uno e assieme a loro s’ingialliva il calendario dei giorni passati. Rimaneva solo qualche cartolina e foto in bianco e nero chiuse nei cassetti delle case, che avevano bisogno di cure e attenzioni ma di cui, scomparsi i proprietari, non si curava quasi più nessuno.
Il passato aveva avvolto con la sua ragnatela i tetti e le abitazioni della porzione antica e lo scorrere del tempo pareva continuare solo sulla periferia dove i cittadini della “nuova Donegallo”, detta con sarcasmo “le piccionaie”, frequentavano i locali alla moda del centro commerciale, la multisala cinematografica o migravano nella città o cittadine poco distanti solo per svago, lavoro, gli studi superiori.
Avevano fondato una loro comunità come Padri Pellegrini in fuga non dalle persecuzioni, ma dallo stress della vita di città, trasferitesi di fatto a Donegallo solo per la tranquillità, i prezzi inferiori degli appartamenti, l’assenza di smog e raramente frequentavano le vie del centro. Non parlavano il dialetto, se non qualche frase spesso dette anche in maniera non corretta, alcuni con una cadenza di regioni lontane o con forti accenti che tradivano un’origine straniera. Donne maritate con italiani, lavoratori di alta qualifica, cittadini provenienti dall’est Europa, persino una coppia di colore francese, di cui a Donegallo per un po’ si parlò.
Erano, in realtà, due città distinte, che però avevano lo stesso identico nome e gli abitanti delle due rispettive comunità chiamavano gli altri o “stranieri” o “contadini”. Pure il dialetto originale di Donegallo aveva subito dei cambiamenti. Antiche parole, modi di dire, erano stati contaminati e modificati da una sorta di virus alieno che aveva mutato dall’interno la struttura molecolare del linguaggio, di cui peraltro pochi si erano accorti.
La Zitella sbucò caracollando tra le strade semi deserte del centro. Sotto i portici, le serrande di molte piccole botteghe erano oramai chiuse da anni. Cartelli con scritto “Vendesi” apparivano ovunque. Segni tangibili della lenta ma inarrestabile decadenza della cittadina che era divenuta, senza che gli abitanti se ne rendessero conto, quasi invisibile al resto del mondo, lontana com’era dalle trafficate superstrade e senza mai avere avuto una stazione ferroviaria, stante l’alveo del Po non troppo lontano. Era come fosse scomparsa dall’atlante geografico.
Vladimiro fermò l’auto quasi di fronte all’Astoria. Rimase seduto con le mani sul volante, come indeciso. Sentiva il peso delle chiavi dentro la tasca sinistra. Non poteva rimandare. Uscì e, per l’ultima volta, sostò davanti alla grande porta a vetri. La mano abbassò la maniglia quasi senza essere comandata. Entrò e si diresse verso lo sgabuzzino, dove si trovavano i pulsanti della sala, come se fosse una qualunque domenica pomeriggio. Trovò la lampadina accesa e gli interruttori della sala illuminati che segnalavano l’avvenuta attivazione. “Strano” pensò.
Poi si accorse che sull’asse di legno che lui stesso aveva montato anni prima, si trovava la piccola rubrica telefonica del signor Vittorio. Era certo che nei giorni precedenti non ci fosse stata. La prese e se la mise in tasca.
Si avviò e in breve si trovò in sala. Era illuminata a giorno. Tre uomini sostavano poco distanti dal palcoscenico. Tra loro, Goffredo. Parlavano, indicavano con le dita le pareti, il palco, guardavano alcuni grandi fogli posti sopra le sedie accanto a loro.
Vladimiro sentì salire lo sgomento. Aveva intuito che l’Astoria sarebbe stato demolito, ma a quel pensiero non aveva mai voluto credere fino in fondo. Ma ora non c’erano più dubbi. Sentì crollare in sé qualcosa d’ indefinito che non riconobbe subito e rimaneva immobile a osservare i tre uomini che gesticolavano senza che si udisse ciò che si dicevano.
Trascorsero altri minuti. Loro non si erano accorti di Vladimiro che non aveva il coraggio di avvicinarsi. Voleva rimandare il più possibile la consegna della chiavi, come se sperasse che ci fosse spazio per un ripensamento, un cambiamento improvviso.
Ma disperava che ciò sarebbe potuto accadere.
I tre uomini proseguivano a parlare indicando questo o quello, mentre lui era fermo, come fosse in attesa di un’esecuzione.
Trascorsero forse dieci minuti. Non poteva più aspettare.
Fece un passo in avanti e proprio in quel momento Goffredo si voltò e lo vide.
Con un cenno lo invitò ad avvicinarsi e giunto di fronte a loro, lo presentò: «Il signor Vladimiro, il collaboratore di mio padre».
Gli altri due, tra cui Vladimiro pensò di riconoscere l’uomo incontrato la settimana addietro nel foyer dell’Astoria, lo salutarono con freddezza.
Vladimiro sentì impellente il bisogno di scappare.
«Le chiavi» disse estraendole dalla tasca.
«Ah, sì. Certo. Grazie» rispose in fretta Goffredo.
«Arrivederci» mormorò lui e si girò senza attendere la risposta che non arrivò.
“Fanculo!”
Vladimiro messosi le mani nelle tasche dei blue-jeans si avviò verso l’uscita, immerso in rabbiosi pensieri. Si fermò davanti al gabbiotto della signora Iolanda. Era così piccolo e stretto che si chiese come facesse a stare lì dentro, seduta per ore su quello striminzito sgabello consunto, lei a cui non faceva difetto la corporatura robusta.
“La vita è una ruota che gira” risuonò nella sua mente; era il detto preferito di Iolanda.
Lui pensò, come sempre. “E gli Aztechi come dicevano? È un lama che sputa. E gli Eschimesi? È un iceberg che si scioglie.”
Rise, come sempre.
Uscì.
La luce tenue dell’inverno stava dilavandosi sempre più mentre la foschia si addensava. Non aveva voglia di vedere nessuno, neanche Volya, o Greta. Si sentiva come un sacco vuoto. Ma non aveva neanche voglia di rientrare a casa. Greta avrebbe capito subito il suo stato d’animo e lui voleva risparmiarle quel momento.
Salì sulla Zitella. Accese il motore e partì, senza neanche sapere dove andare di preciso. Non aveva una meta, forse solo il bisogno inespresso di non stare fermo, come se muovendosi potesse trovare una via d’uscita. Ben presto si lasciò alle spalle il centro commerciale. Guidava piano, senza pensare a niente; neanche una canzone a fargli compagnia.
S’inoltrò sempre più dentro la scarsa visibilità che tutto rarefaceva; le luci delle rade case contadine, degli incroci, delle auto che incontrava, arrivavano e sparivano nell’arco di pochi secondi come reliquie di fantasmi, astri esplosi milioni di anni prima la cui luce solo ora veniva vista dai telescopi. Imboccava strade a caso, senza badare alle indicazioni stradali; diverse volte si trovò bloccato senza possibilità di proseguire e costretto così a ripassare dove era già stato, in un girovagare che pareva lo scarabocchio di un bambino. Venne svegliato dal trillo del telefono.
«Papà?»
«Sì, dimmi».
«Dove sei?»
«Sto arrivando».
«Ok. Io esco, vado da Samantha».
«Va bene. Non fare tardi.»
«Sì. Ho fatto la frittata.»
«Grazie amore. Fra poco sono lì. Ciao».
«Ciao».
Fece un sospiro di sollievo, anche se era sicuro di non essere riuscito a ingannare la figlia.
«Mamma?»
«Ciao Greta. Tutto bene?»
«Papà…» rispose Greta trattenendo a stento un singulto di pianto.
«Cosa ha fatto?»
«Non sta bene. L’ho intuito, anche se lui me lo nasconde».
«Va bene. Ho capito. È a casa?»
«No. Non so dove sia. Sta comunque arrivando».
«Fra mezz’ora lo chiamo».
«Mi avverti?»
«Sì. Stai tranquilla. A più tardi».
«Ok».
«Cosa ha combinato questa volta?» chiese Osvaldo, senza nascondere un moto di sarcasmo, mentre stava sorseggiando un bicchiere di vino rosso da uno splendido calice.
«Lo sai che l’Astoria ha chiuso. Non è un bel momento per Vladimiro» rispose Vanessa che si diresse al lavello senza uno scopo preciso.
L’osservazione di Osvaldo l’aveva colpita, come sempre. Per una ragione a lei sconosciuta, i due uomini non si sopportavano e questo le provocava un sottile dolore che non si leniva mai.
Si sedette accanto a lui e prese il bicchiere di vino colmo in attesa.
Vladimiro entrò in casa e si fermò in mezzo all’ingresso con le mani in tasca. Tutto era come sempre. Non era cambiato niente. La tempesta lì ancora non era arrivata. Si tolse con fatica la giacca e solo allora si accorse del taccuino di Vittorio. Lo sfilò dalla tasca, lo appoggiò sul tavolo e si sedette di fronte a lui.
Continua… la prossima settimana