“In questa guerra che ci sembra più grave delle altre solo perché è vicina, noi che proviamo a raccontarla dobbiamo essere doppiamente bravi a liberarla dal magazzino degli orrori e dalle incrostazioni dell’emotività”. Scriveva così qualche giorno fa sui social Francesca Mannocchi, giornalista italiana de La7 tra le prime a raccontare dal campo la guerra ucraina. Mi ha subito colpito la sua pacatezza, quel sua approccio riflessivo e mai completamente annientato dai fatti, pur cruenti.
Perché è invece proprio una emotività fuori controllo anche nel contesto italiano a essere fuori luogo in questo conflitto: un misto di rabbia, di malessere, di urgenza di schierarsi e di arrivare alle conclusioni, un’esigenza di definitività che non lascia spazio alle domande e alla ricerca dei perché o dei come fare.
Molti giornalisti, tra i più autorevoli, sono impegnati oggi a spiegare a noi, ma prima ancora a se stessi, quanto sia etico e ragionevole l’invio di armi ad un popolo oppresso, in punta di catechismo e di encicliche, citando papi e imperatori, altri si affrettano a liquidare senza rimpianti persino la cultura russa che pure è parte fondamentale della nostra cultura europea; sembrano avere dimenticato in pochissime settimane parole come diplomazia, mediazione, accordi.
Quando invece ascoltiamo qualche giornalista russo collegato da Mosca, ci sembra di vivere in un altro mondo, dove la realtà è già sostituita dalla narrazione.
Ma anche su questi punti fatichiamo a costruire un discorso pubblico e un confronto pacato, che vada alla radice della realtà.
Ci manca un’emotività intelligente, di chi non si lascia travolgere dalle passioni, pur intense, ma prova a riaffermare il valore della ragione e del senso critico.
Occorre leggere dentro una matrice comune le tre crisi che stiamo attraversando:
1. la crisi climatica che ha portato i paesi occidentali ad accelerare almeno sulla carta e nelle dichiarazioni di intenti (Cop26 e G20, del 2021) una transizione ecologica che è apparsa tanto necessaria da chi l’ha vista da Roma o Bruxelles, ma distante e pericolosa se osservata da Pechino o da Mumbai;
2. la crisi pandemica che ha messo in crisi economie e sistemi di welfare nelle diverse parti del mondo ma è stata gestita con grandi limitazioni all’accesso ai vaccini almeno di metà del mondo, quella più povera;
3. la crisi geopolitica che sta rivelando anche ai meno attenti quanto la dipendenza energetica, la mancata sovranità alimentare degli Stati, il mercato delle armi e della guerra, combattuta sempre lontano dai nostri occhi, abbiano costruito legami perversi tra democrazie e nazionalismi, tra governi democratici e paesi illiberali.
Quanto ci manca David Sassoli e quel suo parlare fermo e profetico insieme, di chi incarnava istituzioni nate da una guerra mondiale – l’Europa non è un incidente della storia – ma sapeva ascoltare anche il grido dei popoli di questo tempo.
Il passaggio fondamentale del suo intervento sul senso dell’Europa pronunciato il giorno del suo insediamento si può rivedere su YouTube.
Avremo bisogno, per costruire una pace giusta e duratura, di una nuova cultura della mediazione culturale, di una nuova grammatica dell’unità, di un nuovo discorso intorno alla pace.
C’era un’enciclica di Papa Francesco, che sembrava venire dal nostro passato ma parlava del nostro presente: Fratelli tutti, necessaria, nel solco della dottrina sociale della Chiesa, per un futuro “modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana”.
Ecco: o nel mondo ci sarà spazio per ogni cultura, per ogni tradizione, per ogni storia capace di costruire un domani migliore, oppure non riusciremo a convivere e a progredire tutti insieme.
(Tiziano Conti)