La nostra rubrica letteraria, “Lo scaffale della domenica”, a cura di Andrea Pagani, in aprile affronta un tema monografico molto curioso, poco conosciuto: letterate da riscoprire. Quattro grandi scrittrici di metà Novecento, che ci hanno consegnato alcune preziose perle letterarie, che forse sono state un po’ dimenticate. Buona lettura!
Di fronte alla prosa di Fabrizia Ramondino si prova uno strano sentimento: un misto di meraviglia, seduzione e anche una specie di piacevole sconcerto.
È una prosa ipnotica, che magnetizza il lettore perché, da un lato, lo mette di fronte ad una registrazione lucida ed esatta della realtà, con una serie di dettagli così nitidi da rasentare il profilo fotografico; e, dall’altro lato, trasmette, in forza di una misteriosa magia, una sorta di evocazione onirica, di straniamento, di suggestione visionaria e favolosa. Assomiglia un poco all’effetto che si prova, ad esempio, davanti ad un dipinto di Giorgio De Chirico, con una differenza sostanziale però: che quest’ultimo immerge lo spettatore in una dimensione metafisica e allucinata, piuttosto inquietante, mentre la Ramondino resta sempre ancorata ad una misura sentimentale del vissuto, attenta al movimento del cuore, interessata alle dinamiche che si generano nel cosmo realistico delle relazioni umane.
Un libro incantevole, dove riconosciamo tutto il fascino, malinconico ma mai patetico, di questa singolare scrittrice, nata a Napoli, ma subito trasferita e cresciuta nell’isola di Maiorca per seguire il padre console. Questo primo dato biografico, legato all’infanzia maiorchina della Ramondino, non è affatto ininfluente, perché in quell’isola la giovane narratrice viene a contatto con la prima scissione linguistica e sociale, e in qualche modo con quella koiné lessicale, con quell’impasto stilistico che caratterizza la cifra originale del suo speciale dettato narrativo: a Maiorca, infatti, la piccola Fabrizia impara l’italiano dei genitori, il castigliano del collegio e il maiorchino della servitù, dialetto censurato dal regime franchista.
Ne deriva così un’attrazione per il gioco della parola, una capacità di plasmare il lessico nella sua inesauribile potenzialità di simboli e traslazioni semantiche, com’è, fin dall’inizio, il titolo stesso del libro: Althénopis infatti allude a Napoli, attraverso un gioco che va dalla singola parola ad una complessa gamma di simboli e allegorie.
«Althénopis è il nome della mia città natale – confessa in un’intervista la Ramondino -. In origine il suo nome significava ‘occhio di vergine’. Ma pare che i tedeschi, durante l’occupazione, trovandola così imbruttita rispetto alle descrizioni di Mozart e di Goethe, le mutarono il nome in Althénopis, che starebbe appunto a significare ‘occhio di vecchia’. Alcuni letterati apologeti della nostra città accampano l’interpretazione ‘occhio di saggio’; contro questa interpretazione però si oppone da un lato la constatazione che i barlumi di saggezza sono ancora troppo tenui nella nostra città, come altrove, per essere considerati duraturi; dall’altro il dizionario tedesco stesso, dove saggio suona weise e non alt.»
Basterebbe questa dichiarazione d’intenti, in margine al titolo del libro, per entrare nell’atmosfera della storia, dove tutta l’infanzia della scrittrice subisce la medesima metamorfosi del titolo. Come altri villaggi della Costiera, la Ramondino riplasma la toponomastica e la ridisegna seguendo il flusso della memoria, in una ricostruzione del passato suddivisa in tre tempi, dal secondo conflitto mondiale fino agli anni Settanta, nella misura in cui il racconto si riverbera nella percezione emotiva e non si costruisce tanto su uno sviluppo di fatti.
Un libro, dunque, che si presenta non tanto come una romanzo articolato, con una serrata architettura di trama, ma piuttosto, di capitolo in capitolo, come una serie di quadri esistenziali, legati alle figure dell’infanzia della narratrice, il mare, la mamma, la casa degli zii, la nonna che si aggira a passo svelto per le vie di Santa Maria del Mare, una galleria di personaggi sapientemente ritratti, dove «la scrittura aromatica e serrata indugia molto sul dettaglio fino a farlo protagonista, dilata i tempi e mappa i sentimenti». (Marina Grillo)
In tal senso, l’esercizio del ricordo che compie la Ramondino, nella stessa scelta di chiamare con un altro nome la città e gli spazi, evidenza il tentativo di sublimare il passato, di porsi al di sopra della minuta cronaca realistica e, in definitiva, di scoprire la propria identità attraverso le esperienze che abbiamo vissuto e i luoghi da cui proveniamo.
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(Andrea Pagani)