La nostra rubrica letteraria, “Lo scaffale della domenica”, a cura di Andrea Pagani, in aprile affronta un tema monografico molto curioso, poco conosciuto: letterate da riscoprire. Quattro grandi scrittrici di metà Novecento, che ci hanno consegnato alcune preziose perle letterarie, che forse sono state un po’ dimenticate. Buona lettura!
Sarebbe un errore, anche piuttosto grossolano, ritenere che i romanzi di Natalia Ginzburg siano libri meramente autobiografici, dove si riportano episodi di vita in modo didascalico e pedante, come una banale informazione di cronaca.
Tanto meno lo è un gioiello di prosa intimista come Le piccole virtù (1962), undici testi, fra narrazione e saggio, in cui la Ginzburg riprende situazioni e personaggi della sua vita per farne simboli di riflessioni universali, riverbero di emozioni, condizioni dell’esistere. Come osserva efficacemente Domenico Scarpa, nell’introduzione alla recente edizione einaudiana, la scrittrice «non può fare a meno di sagomare e dare forma di romanzo ai ricordi che va estraendo dalla confusione e dal frastuono della vita».
Prova ne è, ad esempio, il racconto dedicato a Cesare Pavese, dove, non a caso, la Ginzburg non cita mai il nome dell’amico, ma ne tratteggia i profili caratteriali e culturali, così magistralmente, in modo così commosso seppur lucido, da farne quasi un’icona ideale, un modello mitico di intellettuale e umanità. Nel Ritratto di un amico la scrittrice riesce in un’operazione tanto ardua e temeraria, quanto fondamentale e preziosa, cioè quella di partire dall’affresco quotidiano, dall’immagine di una Torino malinconica con un «suo particolare odore di stazione e fuliggine […], grigia di nebbia», da un contesto privato se non addirittura intimo, per approdare infine ad una riflessione sulla poesia di Pavese, riverberata nell’esperienza esistenziale, nella misura in cui i versi di Lavorare stanca si riflettono e si risolvono nel dato biografico. È così che la scrittura della Ginzburg, il suo ricordo e la sua registrazione personale, non è oziosa aneddotica, ma veicolo di conoscenza, crocevia d’una serie di eventi dell’anima.
Si tratta di una tecnica narrativa che caratterizza anche gli racconti del libro: dalle pagine sul secondo dopoguerra, come Le scarpe rotte dove la struggente drammaticità delle scene si coniuga ad un «quasi miracoloso senso del comico» (Italo Calvino), fino a capitoli di una Ginzburg moralista (Silenzio e Le piccole virtù), dove una «partecipazione acuta ai mali del secolo sembra nascere dalla matrice d’un calore familiare» (Italo Calvino).
Ma forse il capitolo più suggestivo e icastico, che resta più scolpito nel cuore per la sua pregnanza ironica e tenera, è Lui e io, dove la narratrice prende spunto dalle divertenti dinamiche della vita col suo secondo marito, Gabriele Baldini, dai caratteri, dalle diversità, dagli irresolubili tentativi di armonizzarsi della coppia, per offrirci un indimenticabile affresco della commedia amorosa, un ritratto profondo e affettuoso della vita coniugale.
In tal senso, il racconto che, con ogni probabilità, è il più paradigmatico è Il mio mestiere, dove si esprime per intero la vocazione letteraria della Ginzburg (che non amava essere chiamata scrittrice, ma scrittore), la sua “incapacità di fare altro che non fosse scrivere” e la difficoltà di conciliare tale mestiere con l’essere madre, anticipando il problema della compatibilità tra lavoro e famiglia vissuto da molte donne. Insomma, come disse Calvino, «in ogni pagina di questo libro c’è il modo di essere donna: un modo spesso dolente ma sempre pratico e quasi brusco, in mezzo ai dolori e alle gioie della vita».
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(Andrea Pagani)