L’attrazione di Kiev verso le democrazie liberali europee è precisamente ciò che Putin non può tollerare sotto il profilo ideologico. C’è una causa dell’invasione russa dell’Ucraina che noi occidentali tendiamo a sottovalutare, troppo presi dal tentativo di comprendere quale sia il nostro ruolo nella vicenda: le motivazioni interne al rapporto fra i due paesi.
Agli occhi di Putin, l’Ucraina di Zelensky rappresenta un affronto, più che un pericolo: in due rivoluzioni, la “rivoluzione arancione” del 2004 e quella nel 2014 di “Piazza Maidan”, la parte maggioritaria del Paese ha osato rifiutare la protezione di Mosca, rappresentata dal leader filorusso Viktor Janukovyč, e si è orientata verso il modello europeo, aspirando proprio all’integrazione nell’Ue. Questa attrazione verso le democrazie liberali europee è precisamente ciò che Putin non può tollerare sotto il profilo ideologico.
L’orgoglio russo, di cui Putin è l’incarnazione autocratica, considera questa vicenda un tradimento della tradizione, una ribellione che, non a caso, il patriarca ortodosso Kyrill ha condannato proprio sul piano morale (le accuse agli ucraini di essere “favorevoli alla cultura gay”).
Un’Ucraina egualitaria e inclusiva, libera e indipendente da Mosca è una sfida alla storia: chiunque abbia ascoltato il discorso con cui Putin, nell’imminenza dell’attacco, esibiva le giustificazioni ideologiche dell’invasione, ricorderà che la Nato restava sullo sfondo. Tutto il discorso ha ruotato intorno all’identificazione fra Grande Russia e territori slavi, Ucraina in testa, la quale secondo Putin non dovrebbe proprio esistere, essendosi costituita su basi geografiche e politiche inesistenti per un tragico errore strategico di Lenin.
Questa riscrittura della storia (in realtà, Kiev esiste da prima che esistesse Mosca) esprime tutto il risentimento di Putin per l’indisciplina degli ucraini filo-occidentali, che lui considera traditori e per questo “nazisti”, ben al di là delle note frange nazionaliste. La ferita all’orgoglio è la vera molla dell’invasione: smentire così platealmente che il sistema sociale russo sia la “casa” naturale e sicura delle popolazioni slave è intollerabile per Putin.
Nella ormai famosa intervista al Financial Times del giugno 2019, il presidente russo esaltò i movimenti populisti e attaccò i governi liberali, accusandoli di aver aperto le porte a un multiculturalismo insensato e rigettato dalla stragrande maggioranza delle persone.
Questo spiega la ferocia dell’attacco, il massacro dei civili, la distruzione delle città. Sulla parte libera del popolo ucraino Putin vuole esercitare una vera e propria vendetta: insegnare loro una lezione che serva di monito a loro e a chiunque aspiri a sottrarsi al “patriottismo” russo.
L’Europa ha tentato in vari modi di coinvolgere la Russia nei nuovi equilibri mondiali: con l’ammissione al G7, a Pratica di Mare; con i patti commerciali, proprio su quel gas che oggi è terreno di scontro; con le aperture verso il turismo e la finanza russe. Ma Putin vede nell’Unione Europea una minaccia culturale e mentale: per quanto debole e divisa, l’Europa è lo spettro che si aggira nei corridoi del Cremlino e che esercita un fascino troppo forte sui paesi ex-sovietici. Un fascino che Putin pensa di esorcizzare con le bombe.
Si riparte da quel 9 novembre 1989, quando crollò il muro di Berlino: dopo 30 anni la storia bussa nuovamente alla nostra porta.
Il politologo Francis Fukuyama, forse, dovrà rivedere il suo concetto di “fine della storia”.
(Tiziano Conti)
Muro di Berlino (Foto Wikipedia)