Capitolo 20

Vladimiro stava aspettando Agnese sulla soglia del teatro. L’incontro al laboratorio di qualche giorno prima si era interrotto quasi subito, perché lei era dovuta correre a scuola per un’urgenza. Ebbero appena il tempo di salutarsi. Ma le due mattine successive, per pura coincidenza, s’erano trovati al bar della piazza a fare colazione e tra i due si era creata istintivamente fiducia e sintonia, come se ambedue avessero rincontrato un vecchio amico.

Vladimiro durante gli anni trascorsi all’Astoria, aveva organizzato per molti anni le recite delle scuole e conosceva bene le dinamiche tra docenti, tra alunni, le aspettative a volte esagerate che gli insegnanti avevano riguardo alla riuscita degli spettacoli.

Alcuni collaboratori subivano passivamente le direttive dell’autoproclamata regista del gruppo teatrale, altri partecipavano in maniera attiva, ma quasi tutti vivevano la messa in scena in maniera ansiosa, quasi fossero loro a dovere salire sul palco; le crisi isteriche, l’ansia che trasmettevano a bambini e ragazzi, erano la regola.

Agnese, camminava veloce sui sanpietrini, mentre si recava all’incontro con Vladimiro, anche se era in ritardo solo di qualche minuto. Nei giorni precedenti, si era sentita felice dell’incontro con quello “strano tipo”, “serio ma divertente” allo stesso tempo, con cui aveva subito messo dà parte l’iniziale diffidenza.

«Ciao», disse lei con il fiatone. «Scusa il ritardo».
«Ciao. Non sei in ritardo. Sei nella norma».
«Nella norma?»
«Le donne sono sempre in ritardo» disse serio. Fece una pausa «Ti sto prendendo in giro».
«Lo spero» replicò lei, sorridendo.
«Entriamo?
«Sì».

«Quanti sono i bambini?» chiese lui fermatosi accanto a lei, davanti al proscenio.
«Diciannove» rispose Agnese, lo sguardo curioso che spaziava il lungo e in largo il palcoscenico, il sipario, il graticcio.
«I bambini parlano, cantano?» chiese Vladimiro aprendo il blocco che aveva in mano e stringendo nell’altra una penna a sfera.
«Recitano, meglio parlano. È una miscellanea di alcuni racconti che abbiamo letto in classe di Gianni Rodari».
«Bello».
«L’hai letto?»
«A Greta. Un’infinità di volte» lo disse con naturalezza e però l’apparire di quel ricordo così lontano che aveva, come tanti altri, sepolto nel dimenticatoio della sua vita passata, aprì in lui un improvviso spiraglio di luce.
«Ogni bambino reciterà delle frasi, oppure faranno dei corti dialoghi, delle descrizioni; dipende molto dalla loro età, ma temo che non si udirà gran ché, è molto vasto».

Si fermò, un’ombra apparve sul suo volto: «Forse dovremmo rinunciare a venire qui. La palestra della scuola andrebbe meglio, come gli altri anni. Si sentirebbero meno a disagio. Che ne dici?».
«No. Perché? Senti, abbiamo tutta la strumentazione necessaria per questo. Ho ancora i microfoni da installare e provare. Sono stati comprati appositamente per permettere di amplificare tutte le voci. Tranquilla, si sentirà tutto e per loro sarà una bella esperienza. Possiamo anche ridurre la profondità del palcoscenico con un fondale che farà anche da cassa di risonanza» disse.
«Potremo fare una prova?»
«Sì, certo» d’improvviso si sentì uscito dall’ibernazione in cui si era costretto a vivere dopo la separazione con Vanessa e avere ritrovato quell’energia ed entusiasmo che per lunghi anni aveva condiviso con Vanessa e messo nell’occuparsi degli spettacoli all’Ariston. Solo in quel momento caì di essersi di nuovo collegato con il profondo di sé.
«Tutto bene?» chiese lei che lo guardava un po’ stupita nel vederlo così estasiato.
«Sì, stavo solo riflettendo. Hai anche degli oggetti di scena, delle cose da appendere, musica da mandare, una colonna sonora?»
«No, non ci ho pensato, anche perché in palestra non è possibile fare molto. Però forse mi piacerebbe appendere qualcosa di vivace, mettere un sottofondo musicale. Inoltre,» e guardò in alto verso il graticcio «le luci al neon della palestra sono terribili».

«Abbiamo a disposizione una ventina di riflettori con qualche filtro colorato, un apparato musicale ottimo, che possiamo comandare sia dal palcoscenico che da fondo sala. Per il tuo spettacolo forse sarebbe meglio che io stia sul palco, così da potere seguire le tue indicazioni in diretta e soccorrerti in caso di ritardi, problemi. La disposizione dei comandi delle luci di sala, degli avvisi al pubblico, è stata organizzata in maniera efficace. In pratica basta solo una persona per avere sotto controllo tutto il teatro durante uno spettacolo».
«Bene. Questo mi tranquillizza molto. Sono bambini, alcuni solo di sei anni e l’imbarazzo, il nervosismo, saranno alle stelle».
«Lo so. Ho fatto molte recite di questo tipo. Vedrai, sono sicuro che andrà tutto bene. Ti va un caffè, un thè, uno spritz?» disse tutto d’un fiato. «Se non hai impegni» aggiunse.
«Non ho impegni» e rise.

Seduti davanti a un aperitivo, Vladimiro guardava Agnese che stava rispondendo al telefono. I profondi occhi scuri, la lunga e folta capigliatura di riccioli neri che le coprivano le spalle e che aveva già inconsciamente, come sempre faceva, iniziato a sistemarsi colpirono Vladimiro che non riuscì a trattenere un brivido di fronte alla sua innocente bellezza. Smise di osservarla.

Lei spense il telefono: «È una pluriclasse, divisa in due sezioni» disse, per riprendere il discorso interrotto poco prima.
«Come?» disse lui, come svegliandosi.
«Dicevo. È una scuola con solo due sezioni, due pluriclassi. Siamo solo tre insegnanti; ma solo io sono di ruolo. Le altre due colleghe sono con un contratto a termine, finita la recita, torneranno a casa».
«E tu?»
«Vivo qui. Sono tre anni che abito a Portico. Insegnare in una pluriclasse è un’esperienza molto formativa, un po’ complicata, ma le cose semplici non mi interessano. Amo le sfide. E tu, cosa mi racconti?»
«Il teatro in cui lavoravo è stato chiuso, demolito».
«Demolito? Che peccato. Vivevate là?».
«Sì. Un paese della bassa padana, vicino a Ferrara.»
«Con Greta come va?»
«Generazione Z» disse con il viso fintamente preoccupato.
«Io sono una millennials. Tu?»
«Sinceramente, non saprei. Baby boomers? Greta mi ha soprannominato “Vintage”, che non è il nome di una generazione, ma il modo gentile per non dire vecchio» disse con una finta espressione seria. «Generazione X, direi».
«Non sapevo esistesse una generazione X» disse lei continuando a sorridere per quella assurda conversazione; ma si sentiva del tutto a proprio agio. «”X” era il nome di un gruppo punk americano» e sorrise anche lui.
«Punk?»
«Ah! Ti devo insegnare tutto» e rise.
«Certo, capo» e rise anche lei.

Vladimiro, Greta e Agnese si ritrovarono sulla porta del teatro dopo avere salutato gli spettatori, i bambini, le famiglie e, infine, Domenico accompagnato dalla moglie e dalla piccola Elisa.

La recita della scuola primaria era terminata tra applausi e risa. Era stata anche la serata inaugurale del rinato teatro e una soddisfazione incontenibile aveva travolto il giovane Sindaco che alla fine della recita non riusciva a trattenere la soddisfazione al pari di Vladimiro, che dopo i lunghi e mesti mesi seguiti alla chiusura dell’Astoria, non era in grado di stare fermo.

«Papà» gli disse Greta mettendogli le mani sulle spalle per arginare l’agitazione che lo pervadeva come se fosse in procinto di avere un attacco epilettico.

Agnese che aveva continuato a ricevere i complimenti dai genitori, dai nonni, aveva sentito calare la tensione così all’improvviso che era quasi sbiancata e a fatica era rimasta in piedi sostenuta solo dalla vicinanza delle persone; ma ora aveva solo bisogno di sedersi, di distendersi, di lasciarsi andare sopraffatta da un’emozione che le aveva messo addosso una voglia incontrollabile di ridere e di piangere allo stesso tempo mentre nella testa continuavano a risuonare le note finali di “All you need is love”, la canzone che Vladimiro aveva scelto per gli applausi finali e che lei non aveva mai sentito. Resistette.

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