La nostra rubrica letteraria, “Lo scaffale della domenica”, a cura di Andrea Pagani, propone il quarto romanzo del genere Gotico. Il tema che ci accompagnerà per tutto giugno: storie di fantasmi, incubi, oscure ossessioni. Buona lettura!
Fantasmi che infestano un castello, un maniero, un torrione diroccato a picco sul mare: è il classico ingrediente del genere gotico, poi genericamente (e spesso impropriamente) confuso con l’horror contemporaneo. Ma dietro queste storie di fantasmi si trova molto altro, qualcosa che ha a che fare con i temi dell’identità dell’uomo, del doppio, della crisi esistenziale, del complesso rapporto con i coni d’ombra dell’interiorità.
A ben vedere, il romanzo che da molti è considerato il capostipite del gotico, Il castello di Otranto di Horace Walpole, presenta caratteri assai complessi, tormentati e sommersi, e non semplicisticamente ascrivibili solo ai racconti del terrore e del soprannaturale.
Il castello di Otranto, dove vive la nobile famiglia omonima composta dal principe Manfredi e dai due figli, Matilda e Corrado, che dovrebbe sposare Isabella, la figlia del marchese di Vicenza, è infestato dai fantasmi, e in particolare dallo spettro incombente di Alfonso, principe antecedente e antenato antico della signoria di Otranto.
La vicenda si snoda in modo concitato e in un crescendo di atmosfere angosciose fra inseguimenti, fughe nei sotterranei del castello, apparizioni inquietanti, misteriose scomparse e uccisioni (uomini schiacciati da giganteschi elmi), visioni inquietanti, smarrimenti in passaggi segreti.
Ma un lettore perspicace capisce che c’è qualcosa d’altro. Qualcosa di più profondo.
Walpole, influenzato da Edmund Burke, che aveva introdotto il concetto del “sublime del terrore”, parte dall’idea che vi siano oggetti e situazioni in grado di eccitare l’animo umano, riempiendolo di dolore, orrore e paura: sensazioni che, seppur negative, negative, esaltano l’io, elevandolo sino ad uno stato di sublime estasi. Tra questi elementi vi sarebbero gli omicidi, gli amori incestuosi, le presenze spirituali, i labirinti, le rovine, i passaggi segreti.
Lo scrittore sa bene – e sembra volercelo suggerire fra le righe, in modo allusivo, facendoci provare brividi di paura – che occorre scendere negli abissi del paranormale per svelare le verità dell’uomo: per questo Walpole scopre, illumina, mette in evidenza le angosce dei personaggi, nefaste premonizioni, visionarie allucinazioni, rifiutando ogni canone di verosimiglianza, abolendo la registrazione realistica dei fatti e collocando al centro della narrazione le nebbie delle follia e gli spettri del soprannaturale.
Non a caso, fu lo stesso scrittore che in una lettera ad un suo amico confessò: «credo che non ci sia saggezza più grande che scambiare ciò che chiamiamo la realtà con la vacuità dei sogni. Antichi castelli, antichi quadri, antiche storie ci riportano a vivere secoli passato e a comprendere meglio chi siamo e cosa viviamo».
È esattamente ciò che capita (tanto per sottolineare quanti e quali seguaci ebbe Walpole) in Cuore di tenebra di Joseph Conrad, quando il viaggio del battello di Marlow s’inoltra sempre più dentro il cuore delle tenebre [we penetrated deeper and deeper into the heart of darkness], ossia in quella dimensione minacciosa e primitiva, ciclopica e istintuale, al di là di ogni freno razionale e civilizzatore, che è simboleggiata dalla zona oscura di Kurtz.
Consiste in questo, senza dubbio, la magia del romanzo di Walpole e il segreto del suo intramontabile successo, quel gusto per il Medioevo notturno e sepolcrale che ha profondamente influenzato tutta la letteratura europea successiva.
Basterebbe limitarsi al fascino dello stile, una prosa d’ineguagliabile potenza espressiva, splendida nella sua spaventosa evocazione onirica: una potenza senza enfasi, asciutta e ruvida, che trasmette la terribile bellezza di un incubo.
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(Andrea Pagani)