Capitolo 23

Finalmente lui sorrise.
«Andiamo?» «Dove mi porti?» disse Agnese mentre Vladimiro, alla guida della Zitella, s’immetteva sulla provinciale.
Erano le prime parole che si scambiavano dopo il breve saluto di poco prima. Greta aveva fatto segno con le dita di “buona fortuna” dopo avere buttato le braccia al collo del padre e soffocarlo delle prime parole che le erano uscite per evitare l’imbarazzo tra i due. Poi, con un breve bacio, era fuggita veloce accampando una scusa banale.

Loro due erano rimasti lì impalati sotto il sole, in attesa di salire in auto, come due pistoleri in procinto di sfidarsi davanti al saloon sulla main-street.
«Al passo. C’è una trattoria. Non abbiamo cenato ieri sera. Ho una gran fame. Tu?» domandò lui.
«Colazione fatta, capo» disse con euforia senza ancora trovare la forza per guardarlo. «Tu?»
«Solo il caffè. Come stai?» chiese senza togliere gli occhi dalla strada deserta.

Il rumore sordo del motore, che a prima vista aveva un po’ irritato Agnese, “Non si sentirà un granché dentro l’abitacolo”, aveva pensato in un primo tempo, era in realtà solo un brontolio di sottofondo. Si rilassò.

Dai finestrini abbassati l’aria fresca, nonostante fosse già mattina avanzata, aveva contribuito a fare calare la tensione; lei si annodò il foulard al collo, sistemò gli occhiali neri e lo guardò. Vladimiro era apparentemente assorto alla guida, ma le dita tamburellanti un ritmo agitato sul volante segnalavano la sua irrequietezza. Lei posò il braccio sullo schienale e lui avvertì la piacevole presenza del gesto, ma finse di non farci caso.

«Scusami per ieri sera. Non so cosa mi è preso. Forse avevo bevuto troppo» disse Agnese, con il volto puntato verso la strada.
«Non devi scusarti. Non mi hai certo creato imbarazzo» e le dita smisero di battere sul volante.
«E poi, tu non mi hai fermato» proseguì lei per canzonarlo.
«Quindi il colpevole sono io? Femmine. Siete le solite». Si volse a guardarla.
«Che ti aspettavi? Donna sono» disse con finto accento siciliano. Risero.

L’innocente scaramuccia era finita. Continuò: «Io non so cosa provo. Non ho avuto nemmeno il tempo per realizzare questa cosa. Non ci voglio pensare» e arrossendo per quella temeraria dichiarazione che stupì per prima sé stessa.

«Benvenuta nel “club dei cuori solitari e complicati”» concluse con tono scherzoso lui ma, senza volerlo farlo trasparire, colpito dalle sue parole. Avrebbe voluto commentare, rispondere, ma il bacio della sera prima era ancora lì, con tutte le sue domande senza risposta, sulle labbra. In fondo, si era stancato da tempo di dovere sempre per forza avere o trovare una risposta a tutti i suoi dubbi, pensieri, gesti e adesso non voleva precipitare di nuovo nell’inquietudine.
«Al club sono iscritta da tre anni» rispose togliendosi gli occhiali e guardandolo.

«Con la barba fatta stai meglio. Magari andare dal barbiere ti renderebbe più “carino”» concluse arruffandogli i capelli, in un bisogno istintivo di toccarlo e capire di avere così superato la linea rossa che si era data; senza averlo programmato, aveva di nuovo spinto il tasto play alla vita.

«Regola numero uno: non toccarmi i capelli».
«Ah sì?» e di nuovo glieli scompigliò. Ora sembravano due bambini.
«Dov’è finita la maestrina tutta casa e lavoro?»
«La doppia vita della signora Jekyll».
«E allora, eccoti qui davanti, il dottor Jekyll».
«Sicuro?» disse lei seria.
«Sì», rispose Vladimiro.
«Separarsi non è poi tanto grave».
«Certo. Ma un anno fa ho iniziato una relazione un po’ complicata, per usare un eufemismo» disse d’un fiato; anche lui, ora, aveva deciso di prendere il largo e l’euforia contagiosa di lei, gonfiava le vele.
«E io tre anni fa ne ho terminata una, per usare lo stesso eufemismo».
«Bene. Abbiamo qualcos’altro in comune. Siamo proprio messi bene» e rise di nuovo.

La strada s’inerpicava sempre di più; i raggi del sole, mescolati all’aria briosa delle colline verdeggianti ricoperte di alberi e campi verdi, rendevano ancora più piacevole l’atmosfera che si era creata tra i due.

Ora si erano messi in pausa e tutte le complicazioni parevano essere ritornate nei luoghi più nascosti delle loro esistenze. Avevano in realtà, lo stesso, identico pensiero; essere lontani dalla vita precedente, tenere celato il fardello degli errori commessi, le porte sbattute in faccia, i ponti tagliati alle spalle, le giravolte compiute per salvarsi.

L’auto girò in direzione del passo, salendo ripida; la Zitella era messa a dura prova, abituata com’era a percorrere le comode strade pianeggianti.

«Vai bella, vai» disse Vladimiro, tenendo ben stretto il volante, mentre le curve a gomito lo impegnavano. Agnese si sentiva così leggera che aveva paura di fluttuare fuori dall’abitacolo. Il panorama cambiò, s’aprì e pascoli sempre più vasti presero il posto della boscaglia che diradava dietro di loro.

«Arrivati» disse lui, quando raggiunsero, dopo una lunga curva in salita, il culmine del passo. Il parcheggio della trattoria era semi vuoto. Il locale non era molto grande; grezzi tavoli e panche di legno erano posti all’ombra di un traliccio ricoperto da rampicanti che gli conferivano un’atmosfera ancora più accogliente. La vista sulla valle sottostante, che si spalancava sotto di loro, e una lieve brezza che aveva reso il cielo più trasparente, contribuì a rendere Agnese più ebbra; lo guardò. Avrebbe voluto abbracciarlo per trasmettere anche a lui ciò che stava provando, ma si trattenne.

Pranzarono con cibo semplice ma abbondante. Entrambi, avevano abbandonato ogni titubanza. Senza confessarlo, avvertivano che senza l’altro non si sarebbero potuti affrancare dalla solitudine, da un esilio cui si erano condannati da soli.

Si raccontarono del lavoro, dei paesi che avevano lasciato, come se non fosse la loro vita ma quella di un personaggio di un film, di un romanzo. Un distacco che permetteva loro di non addentrarsi in malinconici monologhi, nel ricordo di fatti ormai lontani e dei rimorsi che spesso avevano popolato le loro notti e i conseguenti logorroici piagnistei davanti allo specchio; tutto sembrava improvvisamente appartenere a un’altra epoca e non volevano abbandonate quel senso di levità che li aveva invasi.

«Tutto bene?» chiese Vladimiro mentre mescolava il caffè.
«Sì, grazie».
«Anch’io sto bene».
«È stata una bella giornata».
«Non è ancora finita».
Lo guardò.

«Ho fatto domanda per una cattedra di ruolo che si è liberata in una cittadina vicino a casa mia. Ho già avvertito anche Domenico» disse lei, seria, d’improvviso, senza neanche sapere con certezza perché gli aveva rivelato quella possibile svolta della sua vita, parlandole del suo futuro in cui lui probabilmente non era previsto.
Ebbe un moto di rabbia verso sé stessa. “Ho rovinato tutto!” pensò ma era troppo tardi.
«Eri per quello da Domenico? Sei sgattaiolata via come una ladra. Pensavo fossi la sua amante».
Lei rise forte e scosse la testa.

«Allora bisogna fare un brindisi».
«Prendimi pure in giro. Non te la caverai con me. Ti avverto» e tornò a sorridere.
«Non sei soddisfatta?»
«Non lo so. Qui mi sono trovata molto bene ma forse è giunta l’ora di tornare a casa». Il temporale non era scoppiato. Lo ringraziò mentalmente.
«C’è un’Ulisse che ti aspetta?»
«No. Tu?».
«Nessuna Penelope che tesse la tela» rispose vago. Ora non aveva voglia di raccontarle di Vanessa, anche se Agnese sapeva molto bene che esisteva una ex, la madre di Greta. Non fece trapelare nessuna domanda. Lui aveva continuato. «Però è tutto troppo incerto. Il contratto qui scade alla fine dell’anno».
«E dopo?»
«Non lo so. Domenico mi aveva parlato di una possibile proroga» disse adombrandosi.
Lei allungò una mano sulla sua.

«Stai facendo un buon lavoro. Vedrai che si convincerà. D’altra parte, non ha molte alternative. Per quel poco che posso fare, conta su di me».

Il tramonto li sorprese che erano ancora a passeggiare poco distante dalla trattoria.
«Torniamo? Forse Greta si preoccupa» disse Agnese.
«Lei? Non la conosci!» rispose ridendo.
«Non giurarci. È cambiata».
«Sicura?»
«Sì. Solo tu non te ne sei accorto» e rise.
«Ti ci metti anche tu» e presala tra le braccia, la sollevò di peso e iniziò a farla girare in tondo mentre lei rideva e fingeva di avere paura.
«Sei sicura?» chiese Vladimiro, immobili davanti alla porta di casa.
«Sì», rispose sottovoce lei.

Era ormai notte ed erano quasi certi di potersi sottrarre allo sguardo indiscreto di “Teresina l’impicciona” anche se non potevano immaginare che lei, non avendo visto ancora arrivare il “regista”, come lo chiamava, era rimasta sveglia e si trovava proprio lì, appostata dietro gli scuri chiusi, le luci spente, il gatto chiuso nella camera da letto per prevenire ogni possibile rumore.
“A mè àn la fàsì!” (A me non la si fa!)
Entrarono e senza accendere la luce si diressero in camera da letto.

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