La nostra rubrica letteraria “Lo Scaffale della domenica” dedica il mese di luglio ad un tema di intrattenimento e svago, in linea con l’estate: il romanzo umoristico. Buona lettura!
Il musicista Fryderyk Chopin con una felice intuizione dichiarò che «ridere è una cosa serissima», avviando così una riflessione, poi approfondita in ambito filosofico da Henri Bergson nel saggio Il riso (ma anche da Luigi Pirandello ne L’umorismo), secondo cui il riso innesca nell’uomo meccanismi di liberazione dall’intorpidimento della prammatica, di superamento da blocchi e schematismi, di opposizione alla rigidità ripetitiva, verso una sorta di «slancio vitale», assumendo addirittura un valore di portata sociale perché permette ad un individuo di vincere uno stato di inadeguatezza e di rafforzare le sue relazioni sociali. Ridere, sosteneva Bergson, ci permette di superare gli schematismi automatici e rigidi delle convenzioni, e ci mette in contatto con la flessibile spontaneità della vita.
Si comprende così la «serietà», non solo in ambito culturale, ma più estensivamente esistenziale, dello scatto comico, di una sana scrosciante risata, che in qualche modo ci aiuta a guardare con distacco e ad osservare meglio le contraddizioni del quotidiano, in cui troppo spesso siamo miseramente limitati.
Di certo, la letteratura ha fatto proprio questo magistero, ed in particolare un irresistibile classico dell’umorismo, come Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome, ci guida verso un’avventura di straordinarie risate ma anche di pensose meditazioni.
Il romanzo, uscito in Inghilterra nel 1889 quasi per un malinteso (poiché era concepito in origine come una guida turistica ma l’editore pretese di tagliare gran parte delle digressioni storico-culturali sancendo così l’enorme successo dell’opera), è così ricca di gag, battute, situazioni grottesche da risultare a dir poco trascinante e rapinoso.
Tre balzani personaggi, J., Harris e George, accompagnati dal cane Montmorency, un feroce fox-terrier, decidono di compiere un viaggio in barca lungo le rive del Tamigi. Fin dall’inizio i tre protagonisti ci vengono presentati nelle loro bizzarrie e stravaganze: J. ha la fissa della malattia; Harris sa far tutto e tiene sempre in scacco gli altri con comici ordini e contrordini; George non farebbe che dormire. Risalendo la corrente del Tamigi, i tre amici viaggiano per giorni sulla loro imbarcazione, sfilando lungo le campagne inglesi dove vivono inattese avventure: ne nasce una storia esilarante, costellata di piccole sventure e paradossali situazioni, con curiosi aneddoti di costume, filosofia spicciola, ricordi di esperienze buffe, in una serie di gag sulle gioie e i dolori della vita sul fiume. Basti pensare al celeberrimo aneddoto dello zio Podger alle prese con un quadro da appendere, creando un trambusto pazzesco in casa, alla ricerca del martello e del punto in cui appendere il quadro, nell’incapacità di fissare un chiodo nel muro.
Ma non facciamoci confondere.
In questo scenario di scene divertenti e bizzarre, s’insinua spesso una nota di riflessione, uno spunto critico, una raffinata osservazione di cultura e umanità.
Ad esempio, nei pressi di Wallingford nell’Oxfordshire, i tre uomini stanno attraversando quella parte di Inghilterra meridionale famosa per le note vicissitudini storiche, tra cui la Magna Carta imposta a Re Giovanni il 15 giugno1215. E, in questo passaggio del libro, c’è un’immagine di libertà e di progresso: la Magna Carta, simbolica affermazione di alcuni diritti fondamentali per una larga parte della società, viene così commentata dal narratore del libro: «ecco, la grande pietra miliare del tempio della libertà inglese è stata saldamente posata… Purtroppo abbiamo la memoria corta, presi come siamo a cercare sempre nella guerra verso l’altro la nostra serenità, perdiamo di vista quello che abbiamo guadagnato e da dove siamo passati».
L’avvertimento di Jerome è chiaro: la minaccia di non saper osservare la storia, una condanna alla cecità di chi non vede come il progresso dell’uomo sia quello verso la serenità, la pace e non uno stato di “perturbamento” costante.
Ora più che mai queste pagine di magnetica ironia sono serissime: è un riso amaro, anche un po’ pessimista, che ci consente di gettare uno sguardo dolente sulle infinite contraddizioni del nostro tempo.
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(Andrea Pagani)