Questa sera era particolarmente tardi: una bega dovuta ad un errore dell’elaboratore mi aveva trascinato in un vortice di difficoltà che era riuscito a superare con fin troppa pazienza sotto gli occhi dei nuovi colleghi che, alle mie spalle, se ne stavano ammutoliti.
Fuori dal vecchio fabbricato, che ora fungeva da sede della direzione generale della banca, l’aria era decisamente migliore e quasi fresca nonostante il tramonto ancora arrossasse il cielo e i tetti delle case più alte.
Mi stavo allontanando dalla piazza principale del paese seguendo, anche se il percorso era un po’ più lungo, un’antica e stretta strada che si allontanava dal centro in direzione di un vecchio lavatoio che, ai tempi della sua costruzione, doveva trovarsi nella periferia della cittadina, mentre ora fungeva da avamposto ai vecchi fabbricati di pietra rossa oramai accerchiati da nuove e orribili costruzioni.
Dietro il lavatoio un parcheggio ospitava il mio camper in paziente attesa. Appena dentro, via la giacca e la cravatta immediatamente seguite dai pantaloni e dalla camicia, prontamente soppiantate dai vecchi jeans e dal fedelissimo maglione a girocollo. Pochi minuti e sarei arrivato.
Il tragitto era di pochi chilometri, lungo una provinciale quasi sempre deserta che, con ampi tornanti, raggiungeva il piccolo paese: Poggio Bustone.
Una piccola realtà, davvero antica, sulle pendici della valle dell’Aniene, la valle dove (si narra) fosse nato per la prima volta il presepe, evento la cui importanza risultava, all’epoca, decisamente surclassata dopo la nascita, in loco, di Lucio Battisti.
Mi attendeva il solito parcheggio davanti alla chiesa del convento: a dire il vero non si trattava proprio di un parcheggio, ma era divenuto tale dopo il permesso generosamente concessomi dal frate che, immancabile, mi attendeva, platealmente seduto sulla pietra al bordo della fontana.
Lui, le pietre dell’abbeveratoio, la pietra scavata da dove sgorgava l’acqua (freschissima e appena ferruginosa) e il rumore della sua caduta nella vasca formavano un tutt’uno da ritratto: immancabile, come ogni sera da quindici giorni a questa parte, se ne stava lì immobile a scrutare, dall’alto, le tegole dei tetti delle vecchie case del piccolo paese abbarbicate lungo la collina.
Abbozzò un impercettibile sorriso quando gli passai davanti raggiungendo il lato della piazzetta dove mi era stato concessa la sosta: arrestati il mezzo e lo avvicinai al muro esterno del cortile del convento con attenzione.
Spensi il motore, indietreggiai all’interno dell’abitacolo cercando a tentativi l’interruttore della luce.
Trovatolo aprii la porta del frigo, estrassi la bottiglia di trebbiano frizzante e, dopo aver chiuso l’ingresso dell’abitacolo, mi incamminai verso la fontana per raggiungere quello che oramai consideravo “amico della sera”, un amico con il quale scambiavo lunghe chiacchierate inframmezzate da piacevoli sorsate di vino fresco, fette di pecorino favoloso e altrettante fette di pane locale, se possibile, a mio parere, ancora più buono.
– Questa sera si è fatto tardi, mi apostrofò il frate abbozzando un aperto sorriso, non tornavano i conti?
– Capricci di macchine e del loro linguaggio, ma ne sono uscito anche ‘sta volta.
– E già, le macchine. E pure hai il coraggio di parlare di linguaggio, il loro linguaggio. E non ti vergogni …
– Da dove vengo, là nel centro delle macchine, appena sopra due enormi calcolatori, i programmatori parlano di “linguaggio”: a me sta bene.
– E già, la grande città, la banca sempre più grande in grado di fagocitare ogni cosa, anche un piccolo paese come questo che non ha colpe se non quella di essersi fatto magiare …
– …adesso mi sembra che tu stia esagerando: “fagocitare”! Un po’ troppo forte?
– Macché forte! E’ ancora poco! Ma pensaci un attimo! Un trecento case o poco più e un’agenzia di una grande banca con tutte le sue macchine nuove che nessuno capisce.
– Ma non è vero che nessuno capisce, …
– Non verrai a raccontarmi che P… (1) capisce quello che se ne esce da quelle televisioni eh? Perché se mi racconti questa rompiamo l’amicizia!
– Beh, un fondo di vero … ma fa del suo meglio …
– Ascolta me: quello, quando te ne vai, ti maledice anche con l’ultimo sorriso quando ti accompagna alla porta. Lui se ne stava lì seduto dietro il banco, tranquillo e sereno serviva quei sette o otto amici (qui sono tutti amici lo sai no?) che potevano anche diventare più di dieci nei giorni di mercato e tu sei venuto a scombussolargli il futuro con quelle televisioni.
– Ma non sono televisioni …
– Stanne certo, chi sta dall’altra parte del banco, le vede come televisioni e ne restano intimoriti quando vedono che i loro soldi entrano o escono da quei televisori. E non si fidano! Là dentro (e indica la chiesa con il suo tanto bello quanto semplice portale) ne ho già sentite delle belle che non ti posso raccontare.
– Non verrai a dirmi che in confessionale …
– E dove se no! La …, no non posso dirti il nome, mi ha perfino chiesto di parlare con il direttore, quel bravo figliolo che non farebbe male a una mosca. E adesso le televisioni! Vate retro!
– Cosa fai? Mi mandi all’inferno? Tanto non ci credo, non finirò arrostito se non nel forno dove mi farò ridurre in cenere per poi essere gettato nel dimenticatoio fra i più.
– Nel dimenticatoio? E la vita eterna? Dove la metti?
– In tutta franchezza la penso come il mio grande amico Paolo (scuola militare insieme in quel di Ascoli e ancora ogni tanto ci si vede): non mi sento così importante, così unico, così prezioso e perché no così arrogante e presuntuoso da pretendere l’eternità. Neppure le pietre sono eterne o sono molto più dure di me e certamente più vecchie.
– Lo sai che stai bestemmiando?
– Domani mattina, di buon ora, contrito e colmo di buoni propositi, verrò da te in confessionale.
Il viso del vecchio frate si atteggiò ad un largo sorriso che neppure la fluente barba bianca riusciva a celare. Mi osservava come si osserva un animale raro, un evento insolito. Poi l’ilarità prese il sopravvento e proruppe in una fragorosa risata che non cercò, neppure per un attimo, di trattenere. Si lisciava il fondo della barba e rideva, incontenibile. Di tanto in tanto mi indicava con quel suo indice leggermente ricurvo che spuntata da una mano che denunciava tutti gli anni trascorsi dal vecchio frate poi ricominciava la risata.
– Lo sai che anche questa è una bestemmia, vero?
– Vorrà dire che la cosa sarà un po’ più lunga …
Questa volta la risata del vecchio frate divenne davvero incontenibile, rideva e si piegava su sé stesso trattenendo, così sembrava, con le due mani congiunte il ventre prosperoso.
Lo lasciai al suo riso, afferrai la bottiglia che avevo immerso nell’acqua gelida della fontana e mi accinsi, con il cavatappi, a scoprirne il contenuto. Il rumore del tappo che si lasciava penetrare, poi seguito dallo strappo finale con relativo scoppiettio pose fine alla sua risata.
– Con il trebbiano fresco mi darai un’assoluzione più intensa?
– Non scherzare su queste cose …
– E’ proprio perché sto scherzando che me lo posso permettere: se parlassi seriamente non me lo permetterei mai: ho troppo rispetto per il credere di altre persone.
– Bravo. Così deve essere. Poi, lo dico a te qui davanti a questa fontana che sgorga acqua da secoli, acqua che ha dissetato tutta la gente del paese per secoli e ancora secoli, che li visti tutti almeno una volta scambiarsi un saluto e quattro parole nel comune gesto di riempire la brocca, o il secchio o la boccia: c’ho pensato qualche volta pure io.
Quando il suo parlare scopriva una costruzione su base romanesca (quel “pure io”, per esempio) si andava sul serio. Mi piaceva molto quando nel bel mezzo della frase ci piazzava due o tre parole di origine romanesca: non mi sembra di ricordare che inserisse nel suo parlare qualche breve frase o parola di stretta derivazione dal dialetto locale, ma qualche cadenza o intercalare lo erano di certa derivazione.
– Come sarebbe a dire che ci hai pensato pure tu!
– Non mi verrai a dire che non sei disposto a concedermi qualche dubbio anche se sono dispensatore di insegnamenti di fede. E’ proprio nel bel mezzo del dubbio che sgorga la fede!
– Ecco, vedi, io non sono dispensatore di alcunché e quindi posso permettermi di non avere dubbi.
– Finirai comunque all’Inferno!
– Almeno là, a quanto mi dicono, non si paga il riscaldamento.
– Sei blasfemo, questo è certo, ma sei un bravo ragazzo. Ma dimmi, come mai siete venuti qua con le televisioni?
– E daje con ‘ste televisioni! La vostra grande banca aveva fatto il passo più lungo della gamba, come si suol dire e la Banca d’Italia ha suonato il campanello ed è toccato a noi venire a mettere un po’ d’ordine e …
– E siete venuti con le televisioni!
– Oggi si usa così. Il tempo della carta sta per finire.
– Imbrogliare e rubare sarà ancora più facile: non occorrerà più la valigia per portar via il denaro in quantità ma sarà unicamente possibile rubare ancora di più dentro alle televisioni. E per di più, mentre una volta potevano rubare tutti (bastava un po’ di destrezza e astuzia) domani solo chi saprà manovrare le televisioni saprà avvantaggiarsi e portare avanti il proprio gioco. Una volta si indicavano “i signori del vapore” …
Tra una chiacchiera e l’altra si era fatto buio e del terzo bicchiere del frizzante vino bianco rimaneva ormai solo il ricordo. Tutto attorno a noi regnava il silenzio, un silenzio profondo sconosciuto a noi di città. Unicamente la caduta dell’acqua riusciva a romperlo, ma sembrava che anche quel leggero gorgoglio facesse parte del silenzio stesso.
– Domani è venerdì e te ne andrai al tuo paese. Tornerai?
– Non credo, il mio lavoro qui è finito. Mi aspettano altre banche, altre piccole e grandi città e … altre televisioni da piazzare.
Glissò sulla mia battuta abbastanza prevedibile. Si alzò dalla pietra e si diresse verso la balconata che delimitava la piazzetta.
Mi sorprendeva sempre quando lo vedevo eretto tanto era alto, almeno una quindicina di centimetri più alto di me.
Adesso se ne stava là rimirando la valle che si stava nascondendo nella nebbia, come ogni sera nelle due settimane della mia permanenza.
Mi fece cenno con la mano destra di affiancarlo alla balconata e quando lo raggiunsi mi prese a braccetto stringendomi a lui.
Restammo così per qualche minuto, in silenzio osservando il vuoto sotto di noi che si andava riempiendo dei vapori di nebbia.
Poi, lentamente, muovendo il capo come a negare, mi strinse ancora più a sé:
– Sai, quasi tutte le sere, estate, autunno, inverno poco conta, la valle si riempie di nebbia, adagio, in silenzio: sembra quasi desideri che nessuno se ne accorga. Avvolge tutto delicatamente ma inesorabilmente e con costanza di intenti e di pensiero.
Tra un po’, vedrai, nasconderà alla vista anche le poche luci dei lampioni e delle case: tutto scomparirà alla vista da quassù. Un momento magico nel suo assordante silenzio.
Resta così tutta la notte con la sua ovatta biancastra che tutto avvolge e nasconde.
Io sono mattiniero, mi alzo molto presto, quando ancora la luce del sole non ha raggiunto la valle e inizia a coprire di colori e di forme le cime dei monti dall’altra parte della vallata. Io me ne sto qui fermo ad osservare e penso, anzi spero, come sarebbe bello se, al sollevarsi della nebbia tutto, là sotto, case strade, uomini, donne, animali e, soprattutto, pensieri e azioni, assumesse nuove forme, nuovi colori, nuovi valori.
Tutto nuovo! Niente più invidia, menzogna, ira. Niente! … più niente di quanto ci ha portato a questo punto di intolleranza, di rabbia di insulto. Adesso dovrò anche sperare che spariscano le tue televisioni. Non c’è speranza. La nebbia copre, nasconde, ma nulla può cambiare. Io comunque ci spero sempre e lo chiedo nelle mie preghiere. un urlo nei miei lunghi silenzi.
Si allontanò di qualche passo da me e restò a guardarmi con attenzione. Poi, ripercorrendo la breve distanza che ci separava mi abbracciò con forza e restammo così per qualche secondo.
– Abbi cura di te della tua famiglia. Dalle tue chiacchiere ho capito che sei una brava persona e che non fai del male. Cerca la tua verità e confrontala con quella di chi ti sta vicino: nella vita c’è sempre da imparare da tutti. E non dimenticare di imparare da te stesso: lo specchio potrebbe insegnarti molte cose.
Si girò e si allontanò lentamente verso la porta del convento. Sulla soglia si girò e si fermò un attimo ad osservarmi: io ero rimasto seduto sulle pietre della balconata. Non riuscivo a credere che le nostre lunghe conversazioni serali fossero finite, che, esattamente come poi è accaduto, mai più avrei rivisto quell’uomo chiuso dentro un saio: quasi all’improvviso mi resi conto che quella figura che si stava allontanando mi aveva dato tanto senza chiedere nulla in cambio.
– Vai in pace! E scomparve nel buio della soglia.
La mia avventura nelle terre dell’alto Lazio era terminata: portavo con me, verso casa, il sapore indimenticabile di un pane appena sfornato dal forno a legna, il ricordo di una lunga passeggiata all’alba verso un laghetto dove ebbi la fortuna di vedere ben quattro giocose lontre che si tuffavano e si rituffavano giocando nell’acqua, la bellezza del Convento di Greccio con la sua Maestosità e i suoi silenzi. Ma soprattutto il ricordo di quelle otto chiacchierate e il loro grande valore. E mi pagavano pure …
(Mauro Magnani)
(1) Il nome non lo riporto per intero (come quello dell’amico frate): è trascorso molto tempo, molti anni e forse di quelle persone rimane solo il ricordo. Nel mio raccontare il valore della discrezione e del silenzio.