Dopo la pausa estiva, riprende con puntualità il nostro consueto appuntamento della domenica, che ci accompagna da ormai un anno, con la rubrica letteraria curata da Andrea Pagani, “Lo Scaffale della domenica”.
Ogni mese “Lo scaffale” ci intrattiene con un tema monografico su un genere di scrittura. Il mese di ottobre si apre con un tema interessante e poco conosciuto: il “romanzo simbolista-visionario”, ossia quel romanzo che con situazioni al limite del verosimile, propone spunti di riflessione sulla condizione dell’uomo. Buona lettura!
La letteratura non finisce mai di sorprenderci: ci presenta, ad esempio, l’esperienza di un autore che, da sempre radicato negli studi storici, rielaborati s’intende in chiave narrativa, arriva a scrivere opere di un simbolismo visionario e straniante.
Riesce difficile, infatti, immaginare uno scrittore, che ha cesellato la Storia nella sua sontuosa autorevolezza, trattando le vicende politiche portoghesi, l’Inquisizione settecentesca, addirittura gli episodi del Vangelo e della storia di Cristo, uno scrittore, cioè, che ha saputo investigare il dramma di importanti personaggi del passato, in un denso connubio fra sacro e picaresco, come il portoghese José Saramago (1922-2010), riesce difficile immaginare uno scrittore di questo tipo che ci propone un romanzo simbolista, visionario, calato in un’allucinata dimensione apocalittica.
Eppure uno dei suoi capolavori, Cecità (Einaudi, 1996), ci offre proprio questa prodigiosa atmosfera.
Ciò che stupisce, anzitutto, è la perfetta inappuntabile logica interna su cui si costruisce l’intreccio, a partire da un’eccezionale idea iniziale, di forte carica allegorica.
In un tempo e in un luogo non precisati, l’intera popolazione mondiale è sopraffatta da un’epidemia micidiale, le cui ragioni sono misteriose e il cui contagio è tanto oscuro quanto implacabile: una cecità collettiva.
Qui si gioca la maestria narrativa di Saramago: nel riuscire a raccontare le dinamiche sociali, le relazioni umane, le conseguenze psicologiche del nuovo mondo affetto dalla cecità di massa, quindi fondandosi su uno spunto iniziale incredibile, ma riuscendo a renderlo verosimile, straziante e coinvolgente.
Il genio creativo dell’autore, in effetti, consiste nel ricostruire l’esplosione di panico e violenza, gli effetti sfrenati e patologici sulla convivenza sociale di fronte alla malattia: i primi individui colpiti dal morbo vengono rinchiusi in un ex manicomio per la paura del contagio, e da qui, via via, in un crescendo di tensione, si cominciano a costituire le prime comunità, i primi gruppi che cercano di inventarsi nuovi modelli di sopravvivenza (e di sopraffazione), imprigionati nella menomazione della cecità.
È qui, in queste pagine, con uno stile aspro e chirurgico, lucido e spietato, che Saramago tocca il vertice della sua invenzione, rappresentando la mostruosità di cui l’uomo è capace. Non a caso, in una scrittura dalla densa evocatività allegorica, i personaggi non hanno un nome proprio, ma assurgono a metafore universali, indicati con valenze astratte: “La ragazza con gli occhiali scuri”, “la moglie del medico”, “il primo cieco”, “il vecchio con la benda nera”.
Saramago definisce in questo modo i suoi personaggi, quasi a voler dimostrare come la società non tenga in considerazione l’identità delle persone, ridotte a bestie in una lotta spietata per la sopravvivenza.
Un romanzo che mozza il fiato, rapinoso e febbrile, che ha dato spunto, di recente, al genio di Robert Kirkman per il fumetto e poi serie tv The Walking Dead, anche in questo caso, come in Cecità, una drammatica metafora di un’umanità bestiale e feroce, incapace di giudizio e altruismo, precipitata in un vortice di abbruttimento, dove tuttavia, nel finale, si profila una luce di redenzione e salvezza, incarnata in una figura femminile, speranza di un avvenire migliore.
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(Andrea Pagani)