La rubrica letteraria, curata da Andrea Pagani, “Lo Scaffale della domenica”, ci intrattiene nel mese di ottobre con un tema interessante e poco conosciuto: il romanzo simbolico-visionario, ossia quel romanzo che con situazioni al limite del verosimile, propone spunti di riflessione sulla condizione dell’uomo. Buona lettura!
La prima impressione, di fronte ai romanzi di Paul Auster, è quella di romanzi cosiddetti “iper realisti” o “post-moderni”, ossia romanzi dove la presenza di situazioni e personaggi di stringente attualità irrompe sulla scena narrativa, dal mondo del capitalismo all’universo della pubblicità, dalla vita della metropoli alle logiche della finanza. Ma sarebbe un errore. Perché la maestria dello scrittore statunitense, nato nel New Jersey nel 1947, consiste nel coniugare fra loro ingredienti della minuta occasione di cronaca con una dimensione allucinata e straniante, scivolando ben presto nel genere simbolista.
Prova emblematica è il magnifico romanzo, dall’incisiva forza di suggestione, La musica del caso, uscito in America nel 1990 e tradotto in Italia da Massimo Birattari per i tipi di Guanda nel 1991, e ripubblicato di recente da Einaudi: una sorta di originale horror metafisico, che parte come un tradizionale romanzo on the road, per poi prendere una deriva del tutto inaspettata e visionaria.
«Per un anno intero non fece altro che guidare, viaggiando avanti e indietro per l’America nell’attesa che i soldi finissero»: così si apre la storia di Jim Nashe, che dopo aver ereditato un’imprevista fortuna, la cifra per lui “colossale e inimmaginabile” di oltre duecentomila dollari, lascia il lavoro, sale su una Saab rossa e inizia a girovagare per l’America, aspettando solo che i soldi finiscano. Ma quando il “caso”, di nuovo, gli fa incontrare, su una strada secondaria fra Saratoga e New York, uno stravagante giocatore di poker, un singolare e inquietante personaggio di nome Jack Pozzi, quello che sembrava un viaggio secondo i canoni della mitologia americana si trasforma in una vicenda dalla tinte gotiche e oniriche, fosche e angoscianti, dove il protagonista anziché smarrirsi nell’immensità del continente, si smarrisce in se stesso, in una sorta di abisso oscuro di follia e alienazione.
Il profilo del “caso”, che non a caso dà il titolo al libro, all’altezza del secondo capitolo, in margine all’incontro fra Nashe e Pozzi, assume via via una densa valenza simbolica, in un irresistibile climax di crescente intensità drammatica, nel momento in cui la scrittura di Paul Auster tocca il suo vertice di violenza – ma sempre elegante – forza espressiva: il viaggio nei territori inesplorati di un’America misteriosa, diventa una grande allegoria sul tema dell’azzardo, dell’incognito, della sfida all’altrove, simboleggiato dal gioco del poker, quando Pozzi propone allo sprovveduto Nash di investire tutta la sua eredità nel progetto di sconfiggere a carte i due miliardari Flower e Stone.
A rendere ancor più distopico e straniante il trapasso dal romanzo realista on the road all’horror metafisico è la magnifica invenzione narrativa di Auster di una “Città del mondo”, il sontuoso plastico di una città ideale in cui sono riprodotti, in forma minuziosa e maniacale, decisamente inquietante, i modellini degli edifici, delle strade, dei personaggi stessi della storia che viene raccontata, al punto che svapora la frontiera fra la realtà vissuta dai personaggi e la loro prefigurazione metaforica nella costruzione del plastico.
Qui è l’orrore che attende Nashe e Pozzi, dove ancora una volta un oggetto materiale (la mitica Saab rossa) assurge a valore simbolico, come strumento del “caso”, e dove il fascino dell’ignoto, come in certi racconti di Kafka, di Stevenson, di Poe, in certi romanzi di Stephen King, o in certi film di David Lynch, precipita nella dimensione surreale e claustrofobica d’una universale crisi di identità.
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(Andrea Pagani)