Andrea Pagani

La rubrica letteraria, curata da Andrea Pagani, “Lo Scaffale della domenica”, ci intrattiene nel mese di ottobre con un tema interessante e poco conosciuto: il romanzo simbolico-visionario, ossia quel romanzo che con situazioni al limite del verosimile, propone spunti di riflessione sulla condizione dell’uomo.
Buona lettura!

In una Praga straniante e visionaria, a metà strada fra Kafka e Orwell, in un magazzino interrato nelle viscere di un vecchio palazzo, un uomo, Hanta, lavora da anni a una pressa meccanica, trasformando libri destinati al macero in parallelepipedi sigillati e armoniosi, morti e vivi a un tempo, perché in ciascuno di essi pulsa un libro che egli vi ha imprigionato, aperto su una frase, un pensiero: frammenti di Erasmo e Laozi, di Hölderlin e Kant, del Talmud, di Nietzsche, di Goethe.

Con questa bizzarra e geniale idea si apre un autentico capolavoro della letteratura, un’opera spiazzante e folgorante, Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal, pubblicata nella repubblica ceca (patria dell’autore) nel 1977 e tradotta in Italia dieci anni dopo, per l’editore Einaudi, da Sergio Corduas.

Un singolare fascino aleggia sulla figura di Hanta: è un “professionista della distruzione”, il cui compito è macerare la carta dei libri, eppure ama i libri così tanto che cerca di salvarne ogni sera qualcuno, portandolo a casa, tant’è che la sua biblioteca straripa in modo colossale ed esplosivo. Il richiamo a Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (ma anche alla filosofia della biblioteca di Borges) è evidente: colui che dovrebbe distruggere i libri li salva; colui che ne dovrebbe cancellare ogni traccia, li fa risorgere sotto altre forme.

Ma c’è un altro aspetto, forse più intrigante, della figura di Hanta: in fondo egli è un personaggio dotto e saggio “contro la sua volontà”, poiché si trova per caso a lavorare in mezzo ai libri, e quindi a selezionarli, ad andare a caccia di frasi, situazioni, aforismi, senza in realtà aver scelto quel lavoro, ma scoprendosi appassionato tesoriere di un inestimabile patrimonio culturale: mira non solo a «salvare metaforicamente cultura e storia, ma a salvare se stesso e noi» (Sergio Corduas).

È un libro sorprendente, inusuale, impossibile da irreggimentare in un genere o da ricondurre a un modello: un “libro del sottosuolo” alla Dostoevskij e alla Kafka, un libro onirico e poetico alla Stoker, un libro struggente e malinconico alla Leopardi, ma soprattutto un libro profondamente simbolico, ricco di raffinate e enigmatiche allegorie, il cui tema sommerso ed unitario è un atto d’amore nei confronti dei libri, di chi li legge e di chi li fa entrare nella propria libreria e nella propria vita, con una curiosità e una meraviglia un po’ ingenua, candida e tenerissima, così come si riconosce in questa confessione emblematica del protagonista: “Da trentacinque anni pigio i bottoni verde e rosso della mia pressa, da trentacinque anni però bevo anche brocche di birra, non certo per il bere, io ho orrore degli ubriachi, io bevo per aiutare il pensiero, per arrivare meglio al centro stesso dei testi, perché quello che io leggo non è né per divertimento né per far passare il tempo o addirittura per addormentarmi meglio, io, che vivo in un paese in cui quindici generazioni sanno leggere e scrivere, io bevo per poter non dormire mai più a causa della lettura, perché la lettura mi faccia venire un irrefrenabile tremito”.

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(Andrea Pagani)