Le “politiche” di qualche mese fa hanno sancito la metamorfosi di un Paese indicando preferenza a una donna premier (Giorgia Meloni) e la fine di un epoca per il Partito democratico che, dilaniato da correnti e rivalità interne coi Dem, ha cambiato ben sette segretari in quindici anni, rottamandoli, riesumandoli e affossandoli come allenatori di calcio.

Voto o non voto? (Foto di Mohamed Hassan da Pixabay)

Fine di un tabù anche per l’astensionismo col crollo dell’affluenza, ora al 49% dell’intera popolazione con appena la metà degli italiani rappresentati in Parlamento, dato ancor più preoccupante se si guarda la fascia d’età 18-34 anni (42%), a dimostrazione di un disagio giovanile che accusa i politici di non occuparsi del bene comune e del (loro) futuro.

Descritto sommariamente negli anni passati come un atto di pigrizia il “non voto” è stato sdoganato e legittimato negli ultimi anni da parte di qualche (temerario) giornalista che ha iniziato ad accusare la politica, tantè che dalle colonne di primarie testate giornalistiche nazionali questo tema ha iniziato ad interessare sempre più gran parte dell’opinione pubblica al punto da giustificarne le motivazioni quali non necessariamente “sinonimi di ignavia né di disinteresse”.

Sembra trascorsa un’eternità da quando la Dc vantava il 40% del voto giovanile attratto dal miraggio consumistico di prospettive di lavoro, voti poi traslati al Pci di opposizione negli anni ’70 e successivamente finiti dopo un ventennio alla coalizione di centro-destra di Silvio Berlusconi fino all’avvento di Romano Prodi, dei quali fece man bassa alle politiche del 2006.

D’altronde in un sistema come il nostro, che non prevede sulla scheda elettorale l’indicazione “nessun partito non mi rappresenta”, ma soltanto il rifiuto materiale di questo diritto/dovere, è stato facile negli anni ingrossare le fila del movimento di quei “contrari” che hanno scelto di contare poco più di niente, come a dire il meno peggio politico non mi rappresenta? Bene, mi spiace ma mi tiro fuori.

La storia politica italiana d’altronde è ricca di aneddoti su questo tema ma sicuramente, dopo la scomparsa dei partiti di massa, il voto di appartenenza, cioè quello ideologico, a prescindere dai programmi si è indebolito e senza quel paracadute l’astensionismo è diventato un primo partito (immaginario) con un orientamento politico-elettorale più fluido e complice di politici indifferenti al fenomeno che hanno continuato ad “astenersi dall’astenuto”.

Logico perciò perchè la politica, soprattutto quella parlamentare, abbia da sempre definito l’astensione come un fallimento (di grande successo) per la vita democratica bollandone la mancanza di senso civico ed il senso delle istituzioni e foriero solo di egoismi, tacendone però il grosso innegabile vantaggio che portano le poche persone al voto, ossia quello che l’esito del risultato elettorale sia così più controllabile.

Questa stagione che viviamo di pandemia, di bombe, di crisi economica e politica giornalmente chiama a interrogare anche sulle eredità che vogliamo lasciare alle generazioni future e invita a confrontarci anche su fallimenti (di grande successo) come quello dell’astensionismo, partendo dall’idea che le libertà (tutte) dovranno in futuro sempre più essere partecipazione di ognuno di noi ai cambiamenti, compreso di chi preferisce tirarsi fuori col proprio non voto agendo come alle ultime politiche, così da eleggere una maggioranza parlamentare che non rappresenta la maggioranza della popolazione.

(Giuseppe Vassura)