La solitudine è una componente costante e spietata dell’esistenza. Su questo riflette “Bones and All”, ultimo film di Luca Guadagnino, presentato in concorso al festival del cinema di Venezia.

La forza di Guadagnino sta nel trasformare storie apparentemente comuni o già viste in un pretesto per dissezionare l’individuo ed affrontare paure ed insicurezze. Così, un film che si avvicina all’horror ma che è inevitabilmente anche un road movie, intreccia emozioni, dialoghi ed immagini che affrontano l’enorme problema di trovare un posto nel mondo.

Maren (Taylor Russel, premiata come migliore attrice emergente a Venezia) è la protagonista del film, che si apre e chiude con una sua partenza. Nelle prime scene è costretta a fuggire da casa trepidante a causa dei suoi istinti. Questo stato d’animo accompagna Maren tra autobus, automobili e pick up, per poi ritornare, meravigliosamente, nel finale, con una nuova partenza.

Il tema del viaggio viene citato graziosamente dalle letture che accompagnano Maren, sottolineate dalla regia. Una su tutti è Tolkien, di cui Maren legge “Il signore degli anelli”, tra le più alte forme di viaggio, prima di incontrare Sully, personaggio decisamente gollumiano per personalità e atteggiamento.

Maren poi si imbatte in Lee, un Timothée Chalamet desolato e affranto come mai prima, con cui condivide il malessere di scoprirsi diversi e di non potere essere accettati nel mondo. In loro c’è senso di colpa, repulsione di sé ed il vertiginoso vuoto dell’abbandono. Decidono quindi di vagare tra diversi stati americani, uno diverso dall’altro per clima e cultura ma popolati da personaggi e paesaggi troppo simili. Guadagnino insiste sul tema aggiungendo in sovraimpressione il nome dello stato per ogni tappa. Questo vagare soli e in territori soli evidenzia l’inaccessibilità di una consapevolezza personale. L’individuo risulta frazionato in talmente tante parti, proprio come l’America, conglomerato di Stati, da esserne impossibile la comprensione.

L’horror. La trama poggia su un elemento di genere: i protagonisti sono cannibali e non possono trattenersi dallo sbranare persone. Questa loro natura non è volta all’orrore cinematografico ma è iperbole delle peculiarità con cui non si può scendere a patti, che vanno accettate prima di venirne risucchiati. In questo senso è notevole il personaggio di Sully, che, abbandonato dalla società, si è abbandonato al cannibalismo. Seppur discreto e con regole ferree, Sully ha lasciato prendere il sopravvento alla sua inclinazione, restandone domato: come il personaggio di Tolkien alterna isterismi e violenza a momenti di forte vulnerabilità.

Il film è chiaro sull’assenza del bene totale: non ci sono personaggi positivi. Maren e Lee svelano con disinvoltura crepe incavate in profondità e non hanno il timore di abbandonare o di utilizzare la sessualità per scopi personali. Tra i due protagonisti l’amore non è intenso ma disilluso, impossibile secondo l’impossibilità di comprensione tra gli individui. Allo stesso modo, risulta impossibile la vita “normale” a cui si piega la coppia sul finale del film per trovare una dimensione comune e anonima in mezzo allo standard imposto dalla società, che però reprime la loro indole.

Infine, va riconosciuto a Guadagnino il solito tocco delicato e magistrale, con trovate geniali ed una fotografia concreta e significativa. Le inquadrature, alcune nei momenti più drammatici, non hanno soggetti umani. Il regista si sofferma sugli interni, montati in rapida successione, ricreando il concetto di “natura morta”. Così l’occhio dello spettatore scatta dietro le inquadrature cercando di comprenderne l’insieme, proprio come i protagonisti nel film cercano di delineare la loro persona.

Dunque, Bones and All è un film cinico e sfacciato, coperto, anch’esso, dagli standard imposti dalla narrazione che però offrono l’accesso al grande pubblico, sperando possa coglierne l’essenza.

(Leonardo Ricci Lucchi)