Felix Van Groeningen e la moglie Charlotte Vandermeesch siglano la regia de “Le otto montagne”: film di produzione italo-belga-francese, che si è aggiudicato il gran premio della critica allo scorso festival di Cannes e che soggiorna attualmente nelle sale cinematografiche italiane.

La storia è tratta dell’omonimo romanzo di Paolo Cognetti (premio Strega nel 2017) il cui fulcro è l’amicizia di una vita tra due bambini che, in un guizzo temporale, si ritrovano adulti. Il film ha il grande merito di riportare insieme sullo schermo Alessandro Borghi e Luca Marinelli, eccellenze italiane, a sette anni da “Non essere cattivo” di Claudio Caligari, che li aveva visti per la prima volta co-protagonisti.

La dualità dei due amici de “Le otto montagne” esprime anche il dualismo della vita: la fermezza contro la duttilità. I protagonisti si incontrano durante la loro infanzia, quando i genitori di Pietro (Luca Marinelli) acquistano una casa in una vallata sperduta della Valle d’Aosta.
Qui, tra il ristretto numero di abitanti, Bruno (Alessandro Borghi) è l’unico bambino. Si sviluppa un intenso legame tra i due che viene però interrotto dalla brusca intromissione del padre di Bruno.

Di seguito, anche Pietro si allontana dal padre al punto di non parlargli più. Anni dopo, sarà proprio la morte del padre a riportare Pietro in montagna e a riunirlo con Bruno: infatti eredita un rudere nelle montagne d’infanzia e, convito da Bruno, decide di restaurarlo. Fiorisce nuovamente l’amicizia espressa attraverso dialoghi dal linguaggio burbero e sincero, e da molti silenzi.

Durante il film i due oscillano contrariamente nei rapporti, sembra quasi che si alternino nei momenti di benessere e di malessere, così che ognuno abbia sempre l’altro a sorreggerlo. Questo salda ancor di più la loro unione.

Bruno inizialmente guida Pietro tra le montagne, aiutandolo ad uscire da uno stato d’ansia e di spaesamento: gli parla del padre, con cui ha passato del tempo prima che morisse, e lo educa all’essenzialità.
Sicuramente Bruno è il più deciso dei due: laconico nell’affermare che la montagna è la sua vita e risoluto nel credere che ogni cosa abbia un modo giusto per essere fatta.
Pietro è invece indeciso e fragile, uomo di città più che di montagna, ma che ha un’evoluzione profondamente spirituale grazie ad essa: accolto e instradato dalla montagna, trova i sentieri della sua vita che gli permettono di trovare sé stesso e di sovrapporre i suoi passi con quelli di suo padre, riordinando un rapporto irrisolto.

Il rapporto tra gli amici è tenero e autentico: in questo si celebra la bravura, la sensibilità e soprattutto l’amicizia di Borghi e Marinelli, ma anche una regia attenta e ardita. Attraverso le posizioni dei due protagonisti si esprime il loro stato d’essere. Lo studio della collocazione degli attori è dettagliato e volto a tratteggiare un segmento che si allunga e accorcia all’interno della fotografia di tutto il film.

Anche la geografia è importante nel corso della storia. A volte, infatti, il segmento di cui si è parlato si tende fino a percorrere interi continenti.

Mentre Bruno è radicato nella sua montagna, Pietro affronta alcune sue difficoltà attraverso il viaggio, scalando le vette di tutto il mondo.

Da uno dei suoi cammini Pietro riporta la leggenda delle otto montagne. La tradizione nepalese riflette sull’esistenza umana attraverso un’antica parabola: se esiste una montagna altissima con attorno otto mari e otto montagne, avrà imparato più l’uomo che ha scalato la montagna centrale o quello che ha camminato tutte le otto circostanti?

Sorvolando sulla domanda, che apre ad una trattazione profonda quanto estesa, è chiaro come questi due estremi siano riconducibili a Pietro e Bruno, con quest’ultimo talmente attaccato alla sua montagna, da isolarvisi disperatamente durante un inverno sfortunato.

Quindi l’epilogo amaro, ancora ascrivibile tra le leggende importate da Pietro. L’amico aveva infatti spiegato a Bruno il rito di sepoltura tibetano in cui il corpo morto viene lasciato ai corvi come atto di generosità, da parte del defunto, nei confronti della natura.
Dopo la tragica scomparsa di Bruno, il film chiude con lo scioglimento delle nevi, che lascia spazio ad un corpo mangiato dai corvi. Il cerchio si chiude e Bruno rimane per sempre tra le sue montagne.

La natura è quindi elemento fondamentale del film. Viene reificata e incisa da Bruno in un discorso che è un elogio al concreto, al particolare ed al dettaglio; al valore delle cose oltre che al loro apparato estetico, alla sostanza dietro alla forma, al lavoro dietro al pasto.

Questa “natura” viene esposta sullo schermo tramite un formato in quattro terzi che esalta la verticalità e lo slancio delle montagne. Le inquadrature sono in gran parte fisse, come fossero quadri, ed i personaggi quasi sempre nella parte inferiore di esse.

Infine, è doveroso sottolineare la maestria di Daniel Norgren: cantautore svedese ed autore della colonna sonora del film. La sua musica, ruvida e malinconica, così come la sua voce struggente graffiante, è perfetta per l’atmosfera intima del film.

(Leonardo Ricci Lucchi)