Per la rubrica letteraria “Lo scaffale della domenica”, a cura di Andrea Pagani, abbiamo aperto il nuovo anno con una corrente letteraria tutta italiana, forse ancora non del tutto esplorata e apprezzata: il Neorealismo, che si sviluppò fra gli anni ’30 e gli anni ’60 e che documentò, con infinite personali sfaccettature, le vicende storiche e sociali di quel tormentato periodo storico. Buona lettura!
C’è una cosa che irretisce, fin da subito, fin dalle prime righe, nel magnifico romanzo di Cesare Pavese La luna e i falò, e che ne determina l’impossibilità di inquadrarlo in un genere specifico, neppure nell’alveo tradizionale del Neorealismo: ed è la forza evocativa, magnetica, struggente di una prosa lirica, cioè di una prosa che si avvicina al ritmo e alla musicalità della poesia, che si modula sul piano suggestivo di un’irresistibile e commossa malinconia.
S’imprime immediatamente nella mente del lettore quella voce narrativa, una voce che possiede una magia indescrivibile, un mistero indefinibile, perché riesce ad essere, allo stesso tempo, popolare ed elegante, semplice ed sofisticata: la voce della gente comune eppure dotata di un movimento, di una circolarità ipnotica, di un’armonia tutta letteraria e tenerissima.
È questa la voce, distintiva di Pavese, che non a caso nasce e si forma come poeta, che connota il tema di fondo del romanzo, ossia la crisi di identità, la lacerazione, il tormento del protagonista, soprannominato Anguilla, abbandonato dalla madre all’ingresso del duomo di Alba, orfano, nato e cresciuto nella valle del Belbo nelle Langhe da una famiglia di contadini che abita alla cascina della Gaminella, poi emigrato in America, ed infine, da adulto, nel secondo dopoguerra, tornato sui luoghi della sua infanzia: un tormento, quello di Anguilla, tuttavia mai urlato ed esplosivo, ma sempre intimo, sommesso, quasi delicato, e forse per questo ancora più straziante, perché è il tormento di chi cerca a fatica la propria identità e non riesce a dare una risposta alla sua inquietudine.
Il ritorno è però amaro: Anguilla scopre che il mondo della sua memoria non esiste più. Alla Gaminella, il podere dove è cresciuto, ora vive la famiglia di Valino, un mezzadro violento che sfoga sulla famiglia le sofferenze per una vita di povertà e sofferenze. Qui Anguilla stringe amicizia con Cinto, il figlio zoppo di Valino, con cui trascorre molto tempo nelle campagne delle Langhe, rievocando e rivivendo gli anni della propria infanzia ed adolescenza. Il processo del ricordo è attivato anche da Nuto, un falegname che in passato era stato la figura paterna di riferimento per Anguilla; Nuto, ex partigiano, racconta ad Anguilla tutti gli orrori della guerra civile contro i nazifascisti, un evento che ha cambiato radicalmente l’esistenza di tutti.
Così Anguilla scopre un’altra atroce verità: Santina, la ragazza di cui era segretamente innamorato in gioventù ma che non ha mai potuto avvicinare a causa della sua inferiorità sociale, è morta anch’essa: dopo essere stata amante di molti fascisti, si è infiltrata tra le fila dei partigiani come spia. Scoperta, Santina è stata giustiziata e il suo corpo dato alle fiamme.
Ed è proprio in queste serie di tragiche rivelazioni che si esprime la valenza simbolica del romanzo, che ne fa, per l’appunto, un libro fuori da ogni categoria, e non ascrivibile per intero al canone del tradizionale Neorealismo: e cioè il valore simbolico contenuto nel titolo, laddove i ricordi personali di Anguillla, che nella sua dimensione nostalgica e mitica avevano una connotazione magica, fiabesca e celebratrice, ora invece sono stati cancellati dalla Storia e dalla guerra: il falò da rito ancestrale e propiziatorio per la fertilità dei campi diventa strumento di morte e distruzione, sia nel caso della follia di Valino sia in quello dell’esecuzione di Santina.
Il desiderio irrealizzabile di un ritorno alle origini, di una irresolubile capacità di ritrovare se stesso e di dare un senso alla propria identità, di mantenere la pregnanza positiva della memoria mitica, è ben riassunto in una frase di Anguilla, gravida di struggente malinconia:
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta lì, ad aspettarti.
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(Andrea Pagani)