La rubrica letteraria “Lo scaffale della domenica”, a cura di Andrea Pagani, dedica il mese di febbraio ad un genere ben poco conosciuto in Italia: il “gotico sudista” (Southern Gothic), una corrente statunitense, diramazione del gotico tradizionale, che per l’appunto svolge le sue storie negli Stati Uniti meridionali e i cui protagonisti vivono in ambienti abbandonati e degradati.
La letteratura, quando è grande, e quando ha una visione profetica e ampia, riesce a coniugare analisi introspettiva, esame del cuore dei personaggi, e affresco sociale, quadro di un’epoca, scenario della condizione di comunità e classi, senza mai scadere nel didascalico, scontato o pedante. È il caso, senza dubbio, di alcune autrici del cosiddetto “gotico sudista”, una corrente statunitense, diramazione del gotico tradizionale, che per l’appunto svolge le sue storie negli Stati Uniti meridionali e i cui protagonisti sono personaggi inquietanti e miserabili, che vivono in ambienti abbandonati e degradati, e che in alcuni casi si dedicano alla magia hoodoo o comunque vivono in situazioni di emarginazione causate dalla povertà, dall’alienazione, dalla criminalità e dalla violenza.
Fra le scrittrici più significative di questo movimento, si distingue Carson McCullers, dotata d’una scrittura intimista e nitida, lucida e penetrante, vibrante eppure essenziale, capace di sviscerare, con poche sobrie pennellate, i movimenti del cuore umano e, allo stesso tempo, le dinamiche delle relazioni sociali.
Senza dubbio, le tormentate esperienze biografiche della McCullers, affetta da gravi problemi di salute e di depressione (a quindici anni si ammalò di febbre reumatica in seguito alla quale ebbe diversi ictus invalidanti che la portarono giovanissima a essere appena in grado di pestare con un sol dito sui tasti di una macchina da scrivere), ma anche matrimoniali (il marito James Reeves cercò di convincerla diverse volte a suicidarsi), e nondimeno il contatto con le con le contraddizioni e i conflitti dell’oppressivo universo meridionale americano, di razzismo e d’emarginazione, le fecero maturare l’urgenza di raccontare questo universo umano, così come emerge dal suo romanzo d’esordio, folgorante, scritto appena a 23 anni, Il cuore è un cacciatore solitario.
Il libro, che rivela la capacità di entrare nei meandri psicologici dell’uomo senza tuttavia eloquenze formali ma con uno stile asciutto e sobrio, racconta la vicenda di quattro personaggi (un vedovo proprietario di un piccolo caffè, una strana ragazzina con la passione per la musica, un fallito agitatore socialista col vizio dell’alcol e un medico nero marxista e disilluso) che gravitano intorno alla figura del sordomuto John Singer, un mite e tranquillo orologiaio (come il padre della scrittrice), passivo interlocutore scelto come depositario delle angosce di tutti gli alienati e disadattati di una piccola città del profondissimo sud.
John Singer si sforza di leggere faticosamente le parole sulle loro labbra e di rispondere col movimento delle mani affusolate per alleggerire il fardello del loro triste destino e della loro incurabile solitudine («Il ricco lo considerava ricco quanto lui, il povero lo paragonava a se stesso… Ognuno descriveva il muto quale lo voleva»), tant’è che il silenzio di Singer fa da contraltare simbolico al dramma urlato degli altri personaggi e in qualche misura fornisce una risposta alle grida represse di chi gli sta attorno.
Esplode così lo scenario di una provincia sudista abulica e degradata, in lento disfacimento, la stessa provincia rappresentata nei romanzi di Faulkner, Capote, Flannery O’Connor, oppure nella recente geniale serie tv di Nick Pizzolato True detective: quella gotica provincia sudista con la quale la McCullers condivise la fragilità fisica, riverberata nei suoi personaggi infermi, tarati psichici, esclusi o emarginati, a volte persino grotteschi, ma comunque sempre dotati di una commovente tenerezza e umanità.
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(Andrea Pagani)