La riconciliazione, per ora sempre rimandata, tra uomo, agricoltura e cibo sarà ancora sotto i riflettori dei media nel terzo millennio del XXI secolo? Che ne sarà della coltivazione, la produzione e la commercializzazione delle derrate agricole che noi consumatori vedremo fra 10 anni ed i nostri figli tra cinquanta?
In che modo poi le tecnologie agricole potranno cambiare (in meglio) la nostra vita oggi e soprattutto quella di domani? Abbandonando, conservando o inventando qualcosa di nuovo rispetto al passato?
Per un futuro ancora tutto da immaginare servirà anzitutto “rompere” con una parte degli stereotipi che gravitano da sempre attorno al settore, sponsorizzando una filiera diversa da quella attuale prima di poterla cambiare definitivamente, in un laboratorio di idee e virtù dove (ri) trovare chi produce, commercializza e consuma dalla stessa parte per sentirsi (di nuovo) vicini, come a celebrare nel nome del sapere la nobile mission del “primario” con coraggio, intelligenza e generosità anche gettando il cuore oltre l’ostacolo. Questo lo si potrà ottenere soltanto “gli attori” lavoreranno tutti assieme e non invece separati da un muro di gomma come succede oggi.
Più facile a dirsi che a farsi, colpa delle deboli politiche agricole nazionali a cominciare da quelle sull’export ad esempio ed i problemi che creano le “barriere” a cui si deve sottostare, dalle lunghe procedure doganali ai complicati controlli veterinari e fitosanitari di prodotti e derrate promossi dai Paesi di destinazione.
Anche se l’import del Regno Unito verso il nostro agroalimentare è tornato a livelli pre-Brexit, la pandemia e guerra russo-ucraina non ha giocato a favore, da qui il “segno meno” sull’incremento delle esportazioni verso Paesi dove c’è libero scambio o addirittura dove non esistono accordi, malgrado i riconoscimenti alle nostre tipicità.
D’altronde l’agricoltura nazionale è sempre stata rappresentata da un tal numero di aziende e cooperative di medie dimensioni e “costruite su misura”, per qualcuno questo non è sempre un bene perché in ogni singola realtà, è ogni singola coltura che fa la differenza in base alla superficie della azienda stessa che può essere “assoggettata” ad una singola produzione (seminativa, ortofrutticola, vitivinicola, zootecnica, ecc.) in tutto, solo in parte o per nulla, in base alle scelte fatte da ogni singolo agricoltore consorziato oppure no.
Da qui perciò l’impossibilità di “uniformare” la diverse produzioni in modo da offrire al consumatore, nel luogo privilegiato di spesa che per Coldiretti (72%) è il discount, un prodotto qualitativamente omogeneo.
Si evince perciò che questa storica agri-frammentazione italiana ha sempre creato difficoltà a associazioni e cooperative ad argomentare e promuovere strategie produttivo-commerciale “di spessore” a differenza di ciò che altri competitor europei e internazionali del settore hanno realizzato, ad esempio per i fondi mutualistici che non sostituiscono ma integrano le assicurazioni a tutelare i redditi agricoli che in Italia sono sì una novità ma ancora non considerata positivamente. Quanto poi riguarda i “sostegni” dalla Pac, questi contributi sono ancora troppo differenziati per la realizzazione degli investimenti, ancora troppo bassi per i seminativi quanto insufficienti a stimolare nuovi impianti di frutticole.
(Giuseppe Vassura)