Ad inizio anni Venti, sei personaggi in cerca di autore occupavano i teatri di mezza Italia. In Babylon, film dai tratti bipolari di Damien Chazelle, di personaggi ce ne sono solamente quattro, ma come nel teatro pirandelliano, tutti caoticamente lasciati a loro stessi.
Chazelle trascura la riflessione sulla condizione dell’attore e sulla funzione dell’arte e propone l’ennesimo dipinto della storia di Hollywood.
Da quando nel 2016 il filone retrospettivo è stato riproposto dai Coen con Ave, Cesare!, nel giro di pochi anni, altri registi si sono misurati con la rappresentazione della più scintillante industria cinematografica del mondo: Quentin Tarantino con C’era una volta a… Hollywood e David Fincher con Mank.
Babylon è uscito poco più di un mese fa e tutt’ora popola i cinema italiani. Un bene, perché, anche se certamente non si tratta di un capolavoro, l’opera di Chazelle richiede la sala per una fruizione adeguata.
La colonna sonora, di Justin Hurwitz, è l’elemento filmico che spicca maggiormente ma il gusto del film, per una parte, è anche nei colori e nella ricerca compositiva delle immagini: inizialmente grandiose, quasi barocche, ma che si spengono verso la metà. Con loro si spegne anche l’interesse ed il ritmo di Babylon, che soffre della sua durata colossale (3h 9m) e si limita a rincorrere i personaggi.
L’estensione esasperata (che potrebbe essere una scelta della produzione nel tentativo di accrescere l’effetto “evento”) smaschera una storia tutt’altro che avvincente.
Brad Pitt è Jack Conrad, divo del cinema muto, probabilmente ispirato a John Gilbert, donnaiolo affabile e alcolista, in decadenza con l’arrivo del sonoro, mentre Margot Robbie è Nellie LaRoy, un’attrice, squinternata quanto spontanea, che non riesce a trattenersi dallo sperperare al gioco un’inaspettata fortuna.
Entrambi sono bravissimi nell’elevare i personaggi che interpretano, donandogli un’intensità che supera quella narrativa. Manny Torres (Diego Calva) e Sidney Palmer (Jovan Adepo) chiudono il quartetto dei ruoli di spicco, tra i quali, però, nessuno è identificabile come protagonista.
Ipotizziamo, allora, che sia il periodo storico il soggetto di Babylon. In questo caso gli anni trattati risultano troppi e gli elementi principali sfocati.
La narrazione finisce per servirsi dei personaggi, alternatamente lanciati e lasciati al centro della storia, per poi scomparire e riapparire all’occorrenza. I temi da sviluppare ci sarebbero, ma sono tutti sfiorati e nessuno approfondito.
Nonostante si faccia spesso riferimento alla ludopatia e al sentimento di inadeguatezza di Nellie, non si vede mai l’attrice perdersi nel gioco d’azzardo, dove probabilmente sfoga il malessere interiore.
Solo una volta si ha accesso alla fragilità di Nellie, il momento è però fulmineo.
L’attrice, infatti, reagisce ad alcune critiche spingendo il padre ad affrontare un serpente, e, davanti al crollo paterno, assale lei stessa il rettile, portando la scena ad una comicità scadente. Ancora, Manny e il rifiuto delle proprie origini per conformarsi al sistema, Sydney e la discriminazione razziale, sono altri temi a malapena avvicinati ma che avrebbero un forte potenziale, così come John e il tramonto attoriale dovuto al sonoro.
Il sonoro, esatto, in quanto il film, utilizzando ulteriori gag (spassose almeno), tratta anche della sua affermazione. La rivoluzione sonora svolta anche il ritmo della pellicola. Il regista perde il film di mano e si lascia andare a vortici incondizionati di eventi.
Vengono quindi rappresentate scene scollegate e a sé stanti, ad esempio quella in cui i personaggi sono invitati ad una festa della high society dove Nellie sbotta e decide di inscenare la più ridicola delle sfuriate. In una scena raccapricciante, l’attrice emette dosi altamente inverosimili di vomito, prima sul tappeto, poi direttamente addosso al padrone di casa.
Esilarante è anche la futilità del debito di gioco contratto con un temibile gangster da Nellie, che si rivolge a Manny, che si affida a un personaggio fino a quel momento marginalissimo chiamato “Il Conte”, che è così stupido da pensare di pagare il debito con banconote di scena, che sinceramente non interessa e che non apporta nulla alla storia.
Questo indipendentemente dalla buona performace di Tobey Maguire (il terribile gangster), che trascina Manny e “Il Conte” in un luogo depravato e lussurioso, che cambia il tono del film e che, con fare didascalico, vorrebbe fare riflettere sul nero di una società all’apparenza perfetta, scordandosi, forse, che la degenerazione dell’industria è stata rappresentata sin da inizio film e che c’è ben altra immoralità rispetto a quella del sesso sadomasochista o degli spettacoli di uomini che mangiano topi vivi. Che, che, che… una continua digressione.
Inoltre, i toni accesi e l’esuberanza stilistica ricordano troppo cose già viste, in particolare Il grande Gatsby di Baz Luhrmann, di cui Babylon non ha però l’eleganza soprattutto nei costumi, esageratamente succinti e con una ingenua enfasi sui seni di Margot Robbie.
L’epilogo ospita un facile, ma sempre opportuno, omaggio al cinema. Si tratta di un montaggio rapido di sequenze di film che hanno innovato la settima arte, non troppo distante dai video proiettati finite le pubblicità nelle sale cinematografiche.
Dunque, Babylon è un film insipido e troppo confusionario. Viene il dubbio che la scelta sia voluta e che un tale disordine voglia pareggiare quello dell’industria hollywoodiana. Se così fosse però l’esperimento risulterebbe sgradevole e inutile.
(Leonardo Ricci Lucchi)