La pubblicazione di questi racconti per tutto il mese di marzo è un modo un po’ diverso dal solito per celebrare l’8 Marzo, Giornata internazionale della Donna. “Le mie storie sono dedicate alle donne e alle voci del passato”, scrive Roberta Giacometti. Buona lettura.
Camminavano sottobraccio. Era una domenica soleggiata e stavano andando al campo sportivo per vedere giocare al pallone i giovani del paese.
Le due chiacchieravano felicemente. A dire il vero era una che teneva banco: raccontava del fidanzato che era appena partito per il servizio militare, dei baci e degli abbracci che di nascosto si erano dati nel buio corridoio della casa, delle insistenze di lui a volerla accompagnare dovunque e, con qualsiasi scusa, appena calava la luce, le chiedeva di andare con lui, dietro a un cespuglio del prato della rocca, per accarezzarla.
Lei, raccontava, un po’ ci stava e un po’ no, rideva risistemandosi la camicetta e lo incoraggiava ad aspettare: aveva sedici anni, troppo pochi ella pensava per fidanzarsi davvero. Ma lui aveva tanto insistito, la desiderava, non poteva aspettare, le aveva detto, e così prima di partire per il servizio militare, avevano annunciato ai parenti il loro fidanzamento.
Parlava con l’amica ed emozionata le stringeva il braccio, come per trasmetterle i suoi entusiasmi e le sue aspettative. Dovevano aspettare due anni, le diceva, il tempo della leva, e poi si sarebbero potuti sposare. L’amica non commentava. L’ascoltava e in silenzio provava gioia, in silenzio partecipava alla sua felicità.
Quei patemi di cuore non erano per lei. Si chiamava Pace. Era nata il 24 maggio 1915, quando il “Piave mormorava”. Il padre, impaurito dalla dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, volle sperare in una risoluzione veloce: Pace, il nome della sua primogenita.
Pace era una bella ragazza, occhi e capelli scuri, con denti bianchi come avorio, se li curava con attenzione, pochi lo facevano in quegli anni. Era la fine del 1938. Pace era infermiera, aveva già finito la scuola e si apprestava ai primi lavori in corsia nell’ospedale della città.
La famiglia l’aveva fatta studiare perché lei, con tanta determinazione, aveva dichiarato che non si sarebbe mai sposata, sposarsi per veder poi i figli e i mariti morire in guerra! disse, e così, per poterle dare un avvenire, la famiglia le assicurò un lavoro sicuro. Le altre ragazze della sua età cercavano un uomo che le proteggesse, un uomo per condividere il futuro, lei cercava solo di far bene il proprio lavoro dal quale traeva tante soddisfazioni.
Questa uscita al campo sportivo era per Pace una cosa insolita. Era una sua sorella che quel giorno doveva accompagnare l’amica alla partita, ma la piccola si era ammalata proprio la mattina stessa e così lei, per non deludere l’amica che da sola non aveva il permesso di andare, aveva acconsentito ad accompagnarla per quella che allora era una bella passeggiata e un’occasione per incontrare altri giovani della loro età.
Fra le due amiche c’erano otto anni differenza e Pace sembrava dai modi e dal contegno quasi la madre. L’altra ragazza, bionda, piccolina e con gli occhi balenanti di un azzurro-viola, si chiamava Capinera.
Anche il suo nome aveva una storia. Nata dell’inverno del 1922, ottava figlia di una coppia di origini modeste, quando il padre andò in Comune a denunciare la nascita di un altro figlio si accordò con la moglie per chiamare la piccola Giuliana. Ma nell’andare lungo la via sentì una canzone: la chiamavan Capinera, pei suoi ricci neri e belli, stava sempre fra i monelli per la strada tutto il dì… la mia casetta accolse Capinera e lei cantava, cantava, giuliva, di trilli e grida la casa riempiva… Capinera!, si innamorò di quel nome, originale per una bambina.
Tornando dal Comune, dopo aver fatto la consueta puntata al bar dell’angolo, comunicò alla moglie che aveva cambiato il nome della figlia. La moglie vi era abituata: la fantasia e le stravaganze del marito oscillavano fra il divertirla e l’indisporla, ma, da donna buona e remissiva qual era, emise solo un soffio e gli chiese infine il nome della creatura che beatamente succhiava al suo seno.
«L’ho chiamata Capinera.» Disse chiaro e forte, orgoglioso della sua originalità.
La donna rimase perplessa, silenziosa ma poi chiese stancamente:
«Che nome è, un nome di un uccello!?»
Il marito le spiegò della canzone che lo aveva ispirato, come fosse stato un segno, un suggerimento solo per lui. «Riempirà di canto la nostra casa…» La donna sospirò, ormai era rassegnata: il marito sceglieva per i figli i nomi più stravaganti. Lei pensava per i suoi bambini i nomi più semplici, quelli dei suoi vecchi, dei santi e invece lui credeva che i nomi dei figli fossero una bandiera sventolante la sua originalità e si divertiva nel segnare quei figli con il proprio estro e imponeva nomi stravaganti per affermare la sua paternità, per dare continuità alle sue passioni e alle sue idee.
E così, per passione politica, aveva chiamato un figlio Avanti, un altro Ardito, per passione al bel canto aveva chiamato una figlia Uriana, perché era la protagonista di una operetta ascoltata a teatro. Un’altra Carmen. Egli amava l’opera: tutti lo avrebbero ricordato!
E quest’ultima nata: Capinera! Aveva seguito il suo intuito, che non l’aveva mai tradito: gli piaceva accarezzare il caso, giocare con gli sberleffi, con le capriole della vita. E Capinera non l’aveva deluso: la sua voce melodiosa aveva incantato lui e il loggione del Duse e i teatri della Romagna.
Le due amiche arrivarono al campo sportivo. Capinera si godeva la partita e la vista di tanti bei giovani che correvano dietro la palla. Gridava ad ogni tiro, voltandosi verso Pace che cercava di calmarla, perché un po’ si vergognava di tanta esuberanza.
«Ma se non faccio così non mi diverto! Dai Pace fai qualcosa anche te, altrimenti mi fai sentire una sciocca! Guarda, ecco quello che tira… rete!» e quasi le strappò il cappello che a turno le ragazze indossavano la domenica.
«Attenta, non fare così… mi sciupi il cappello, dopo chi le sente le mie sorelle!»
Le sue sorelle e i suoi fratelli. Erano tanti dell’una e dell’altra famiglia. Avrebbero potuto fare una partita di pallone fra loro, comprese le riserve.
Diceva Pace sottovoce: «Mia mamma, per giustificare i suoi tanti parti, dice di sé che è talmente fertile che al babbo è sufficiente togliersi i pantaloni e appoggiarli in fondo al letto per rimanere gravida! Certo che è sfinita! Quattordici parti in vent’anni! Povera mamma, io non voglio diventare così!»
Ma poi pensò a tutto il bene che voleva alle sorelle, ai fratelli, alla famiglia di Capinera e a tutti quei bambini che giocavano in cortile e si pentì di averlo detto! «Però, quante risate che ci facciamo la sera tutti insieme! Ci rubiamo per gioco le poche cosa da mangiare, le nascondiamo, incantiamo i più piccoli con semplici giochi di prestigio: mio fratello Luigi tira, tira e fa finta di spezzarsi in due il pollice della mano fra gli oh! di meraviglia degli altri e mio fratello più grande, che ha sempre fame, mette pane nella zuppa finché il cucchiaio non sta dritto in mezzo al piatto, solo allora comincia a mangiare! Fa a gara con gli altri ma a nessuno riesce bene come a lui!»
Tornando verso casa Pace raccontava della sorella che quella mattina si era sentita poco bene, era svenuta, per fortuna che c’era lei in casa altrimenti avrebbero dovuto portarla in ospedale.
Capinera ebbe un brivido: le cose che potevano succedere all’improvviso la spaventavano. E mentre camminavano sottobraccio lungo il viale alberato Capinera la strinse a sé e le disse piano: «Spero di non svenire proprio adesso, ho le calze tutte smagliate, tenute su con lo smalto, e le mutande senza elastico! Pensa che figuraccia farei! Dai Pace, andiamo veloci a casa!»
Pace le diede un bacio in fronte e la portò sana e salva a casa!
(Roberta Giacometti)