Andrea Pagani

La rubrica letteraria “Lo scaffale della domenica”, a cura di Andrea Pagani, dedica il mese di marzo ad alcuni capolavori del nuovo Millennio: quattro libri del nostro tempo, fra fine Novecento e inizio XXI secolo, che hanno segnato una svolta nella scrittura e nelle tematiche narrative.

La scrittura di Tom McCarthy è ipnotica e avvolgente: ti risucchia in un vortice contagioso e irresistibile di situazioni, di immagini, di congetture, al limite del verosimile, in apparenza assurde e visionarie, ma concepite e costruite in modo così lucido ed esatto da risultare credibili, seducenti, trascinanti.

È il caso di un romanzo formidabile, Déjà-vu. Il romanzo dei ricordi perduti, pubblicato per la prima volta in Italia nel 2008, nella traduzione di Anna Mioni, da un editore coraggioso e sofisticatissimo, purtroppo scomparso, Isbn edizioni.

Il romanzo si apre in una maniera folgorante e assume, via via, connotazioni oniriche del tutto stranianti, ma capaci di penetrare e catturare in profondità l’immaginario del lettore.

Qualcosa di strano cade dal cielo.

Un oggetto indefinito e misterioso, e ferisce gravemente un uomo che perde la memoria.

L’assicurazione, che non vuole si sappia nulla dell’incidente, lo ricopre di soldi.

L’uomo senza nome, protagonista del romanzo, all’inizio non sembra essere particolarmente colpito dal trauma, finché non viene trascinato da un intenso déjà-vu.

È l’inizio dell’ossessione.

L’uomo senza nome è ostaggio di una forza prevaricante e totalitaria che lo spinge a rimettere in scena le sue visioni.

Come un immenso teatro dell’assurdo il cui sipario si apre in mezzo alla realtà quotidiana, egli fa costruire, con i soldi acquisiti dall’assicurazione, un intero palazzo, abitato da decine di persone pagate solo per eseguire gli ordini dell’uomo senza nome, in modo ripetitivo e ossessivo, nella più grande messa in scena mai realizzata da essere umano, in modo da fargli rivivere, riscoprire, rivelare quel misterioso déjà-vu: quel momento dell’essere che egli ha perduto e che in questo modo cerca ossessivamente di far riemergere dal proprio inconscio.

Una situazione apparentemente paradossale e pazzesca, che tuttavia rapisce il lettore in una rete inestricabile di interrogativi su se stesso, sul proprio passato, sulla propria condizione esistenziale: perché ognuno di noi, in fondo, si riflette nella ricerca ossessiva del narratore, la ricerca di quello che Virginia Woolf definiva il moment of being, un momento dell’essere, il senso epifanico della nostra vita intima.

Lo svolgimento di tale ricerca, per il protagonista del libro, assume connotati sempre più allucinanti. La ricerca dell’autenticità, della propria identità, del ricordo perduto, lo spingerà infatti in una drammatica e violenta spirale il cui senso ultimo riposa nel viscerale mistero della memoria, la materia stessa di cui siamo fatti noi uomini.

Un romanzo, il cui modello evidente è la Recherche di Proust, ma i cui esiti sono di sconcertante e conturbante originalità.

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(Andrea Pagani)