Il 25 Aprile è il giorno scelto come simbolo della rinascita democratica dopo gli anni della guerra e deve essere un giorno di felicità, di orgoglio e coesione nazionale a ricordo di quelle donne e quegli uomini che hanno (ri) dato dignità all’Italia.

Sul 25 Aprile incombe invece il rischio di un nebuloso oblio (forse) perché le voci appassionate di quei testimoni stanno via via scomparendo, lo si coglie nei freddi riti istituzionali che si stanno susseguendo durante le giornate “a ricordo” in ambito locale, che fotografano un’Italia quasi indifferente e sempre più interessata ad altre banalità, come ad esempio (mani al calendario) le giornate di lavoro da “incasellare” in occasione dei ponti di quest’anno che saranno numerosi.

Di cortei per la Festa della Liberazione e dei buoni propositi, che rinovellavano “…ora e sempre Resistenza…” e incarnavano lo spirito antifascista “…resistere, resistere, resistere…”, non v’è (quasi) più traccia come a voler dimenticare quell’Italia in armi che diventò libera dopo anni di occupazione nazi-fascista e come a svilire il 25 Aprile e chi durante la guerra di liberazione ha perso la vita combattendo per gli ideali ed i valori della democrazia.

Un oblio questo che rischia di alimentare la linfa dei nostalgici che questa festa vorrebbe cancellare al pari di pretendere una toponomastica a favore di qualche politico del passato anche se di fede fascista, razzista e collaborazionista coi nazisti nella caccia ai partigiani.

Il passato tragico questo dell’Italia sull’esperienza fascista e le sue repressioni brutali finanche al delirio, che accomunano in generale su tutti i poteri dispotici, dovrebbe servire a ricordare (e stimolare) le giovani generazioni di quanto sia esile e prezioso il patrimonio costituito dalla libertà democratica antifascista ottenuta anche grazie alla Resistenza (senza farne un mito) che ha poi successivamente consentito al Paese di darsi una Costituzione su cui tuttora si basa la nostra convivenza civile.

Tutto il contrario dell’anima guerriera di cui si è nutrito il fascismo mussoliniano fatto di parate, di uniformi e di istituzioni militaresche dedite alla guerra e a forgiare “adepti” in camicia nera esasperando in loro il culto del capo, il coraggio fisico, l’abnegazione e un disprezzo della morte in modo tale da rendere logico e doveroso accomunare con la forza tanto queste folli virtù quanto sacrifici e sofferenze anche ad altri connazionali consenzienti o meno, per far emergere in loro con le buone o le cattive una “razza” di italiani ritemprata, rigenerata e sempre ben supportata da una brutale milizia e da tribunali di dubbia imparzialità.

A ricordare ciò le principali tappe dei misfatti fascisti con la fondazione de “I Fasci italiani di combattimento” nel 1919 ed il “discorso del tre gennaio” (1925) dove Mussolini diede inizio alla dittatura, furono di pochi anni prima la Marcia su Roma (1922) e l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (1924) mentre nel 1926 vennero sciolti i partiti politici, la stampa d’opposizione e mandati al confino gli esponenti “contro” fra cui Antonio Gramsci.

A suggellare la disastrosa alleanza con la Germania nazista fu nel 1934 l’incontro a Venezia di Mussolini con Hitler e nel 1935 in funzione anti-britannica le drammatiche campagne coloniali ad iniziare da quella d’Etiopia, portando l’Italia filo-tedesca alle leggi razziali ed in guerra nel 1938 appena dopo aver dichiaratone la “non belligeranza”, guerra peraltro persa con le conseguenze disastrose che tutti noi conosciamo.

E’ malgrado ciò che fa paura (e fa riflettere) l’incredibile paradosso che stima una maggioranza di italiani che ancora oggi del fascismo non ne provi vergogna, ed anzi dica addirittura di rimpiangerlo.

(Giuseppe Vassura)