Come tutti i bambini amavo gli animali, ma la mamma non mi permetteva di tenerne uno in casa: secondo lei dovevo accontentarmi di giocare con i gatti randagi che vivevano nel ricovero o attorno a casa. Ce n’erano davvero tanti.
Quando le gatte andavano in amore era un “frullo” continuo nel mio cortile.
Durante quelle serate si sentivano le gatte miagolare per richiamare i maschi che, pronti, attraversavano la strada per potersi accoppiare.

Gattoni tigrati, con le croste dietro alle orecchie, con code storte, rognosi e scalcagnati, ma sempre all’erta per la riproduzione. Facevano la fila, spesso in buon ordine, aspettando il proprio turno. Io li osservavo curiosa stando alla finestra per non disturbare il loro accoppiamento.

Mio padre, che guardava la televisione, si spazientiva perché facevano davvero un gran putiferio: si rincorrevano, le gatte per un po’ si concedevano, poi scappavano e tutta la gatteria dietro… Una sera d’estate, con le finestre aperte, quel miagolare straziato gli impediva di sentire le notizie del telegiornale, allora arrabbiato aprì l’armadietto accanto e cominciò a buttare giù di tutto, flaconi e scatole di medicine per allontanare i gatti in amore.

La mamma a tale spreco gridò: Sa fét? Ma sa fèt? Daj un taj! Non bastò. Poco dopo, eccoli di nuovo sotto la finestra, alla carica: ai gatti piaceva quel cantone.
Mio padre infuriato andò in terrazza e rovesciò la pentola dell’acqua per la pasta che era sul fuoco. Io inorridii, uscii in terrazza piangendo e urlando.
Dopo quel giorno mi iscrissi all’Associazione Protezione Animali: portavo sempre con me la tessera e la mostravo ogni volta annusassi odore di sopruso verso un essere indifeso. Mi sentivo una guardiana della natura, paladina dei diritti degli animali.

Ma non mi bastava: io volevo il mio gatto e, come tutti i bambini, conducevo la mia battaglia tornando sull’argomento ogni giorno.

A quei tempi il martedì, giorno di mercato, all’angolo fra Porta Montanara e viale Rivalta c’era un signore che vendeva gli animali. Arrivava con un furgone pieno, come fosse un’arca di Noè scassata e arrugginita, posava gli animali a terra in gabbie e stie: pulcini, galli e galline, piccioni e tortorelle, pappagalli e canarini, porcellini d’india, conigli, cuccioli di cane e di gatto.

L’anno in cui passai dalle scuole elementari alle medie, il 1968, fu particolare per me, perché mi fu concessa più autonomia e il mercato faceva parte dei miei allunghi di percorso. Dieci anni sono una bella tappa, diceva la mamma, ed ebbi il permesso di andare a fare la spesa allontanandomi dalle solite strade, avventurandomi in centro.

Il signore degli animali, come lo chiamavo io, era la mia attrazione: mi fermavo a lungo a guardare i cuccioli.
Una mattina di settembre, poco prima che cominciassero le scuole medie, attese con trepidazione perché ero convinta che mi avrebbero aperto un mondo, mi innamorai.
Davanti a una gabbia in cui il signore aveva messo una cucciolata di gattini, uno di questi, quello tigrato, mi guardò, si alzò staccandosi dagli altri e piccolo, piccolo mi annusò la mano che gli porgevo.
Mi si strinse il cuore, le lacrime stavano per partire: «Quanto costa?» Costava mille lire, quelle che avevo con me per fare la spesa.
Gli diedi i soldi senza tentennare, presi in braccio il gattino e stretto stretto lo portai a casa.

Mia madre si arrabbiò per il gatto e per le mille lire: «Con tutti i gatti randagi che ci sono in giro spendi pure dei soldi!» Così il tema della discussione si spostò dal gattino e chi lo avrebbe accudito, ai soldi mal spesi; i miei genitori ebbero da dire, discussero fra loro su come si debba insegnare ai figli il valore del denaro, quella volta fu il babbo a dire alla mamma: Daj un taj! e alla fine il mio gattino passò in secondo piano. Anzi, la mia gattina, perché “mille lire”, come la chiamai, si rivelò femmina.
«Ci mancava anche questa!» La mamma già vedeva nidiate di gatti, da nutrire e da pulire, che giocavano per casa, rompevano e graffiavano.

Passai un anno facendo il compito con la gatta accovacciata sopra il libro appoggiato al tavolo, per sfogliare le pagine la scostavo piano piano. Sentivo le sue fusa, la sua presenza, mi dava sicurezza: le parlavo e ripetevo le lezioni a voce alta davanti a lei, che era il mio pubblico. Dormivo con la gatta faccia a muso, condividevo spazi e luoghi. Fu un amore a prima vista che durò anni.

In seconda media ci fu la scoperta del fumetto.
Il babbo mi aveva incaricato di tenere la sua libreria sempre ben fornita di Tex e Zagor, i suoi fumetti preferiti.
Mi dava qualche spicciolo e io andavo a rifornirmi presso l’ambulante che commerciava giornalini usati, che in quegli anni teneva il suo banchetto sotto il porticato del Teatro Comunale e, più tardi, in una botteguccia attigua al negozio di giocattoli delle sorelle Righini.

Era un signore grosso, calvo, di poche parole, che indossava sempre un eschimo verde e che lasciava sfogliare i giornalini senza metterti fretta. Cedevo pacchi di giornalini per lo scambio e potevo prenderne la metà senza pagare nulla.
Portavo a casa Tex per il babbo ma lo leggevo anch’io, innamorata com’ero del figlio di Tex, Kid o Piccolo Falco per gli indiani.
Le avventure continuavano con Zagor, il suo grido “Aayaak” risuonava nella mia testa come un grido di battaglia e di rivolta.
Mi appassionavo alle storie dell’Intrepido, del ladro-gentiluomo Ghibli, leggevo Diabolik: come avrei voluto avere i capelli di Eva Kant!, sfogliavo Kriminal e Satanik.

Ci fu il momento anche dei fotoromanzi, ma le storie sdolcinate a casa mia non piacevano. Ricordo pomeriggi piovosi interamente passati a leggere e rileggere nuovi episodi di questi personaggi; mi immedesimavo a volte in uno o nell’altro, così a caso, l’importante era sdraiarsi sul divano, la gatta a fianco e pensare, con il giornalino in mano: e adesso via, verso nuove avventure!

E dopo la mamma che mi prendeva per un braccio e mi diceva: Daj un taj, tutte scuse per non aiutarmi! Prima di restituire i fumetti al signore vicino al Teatro, ce li scambiavamo fra amici e un giornalino, prima di rivenderlo a metà prezzo, veniva letto da una decina di noi. Ritornava al mittente pieno di orecchie, unto e ben stropicciato.

La terza media fu l’anno del motorino.
Mia madre aveva un Trotter, poi lo cambiò con un nuovo Ciao.
All’inizio giravo solo attorno a casa, consumando miscela per imparare; presto fui pronta e cominciai ad avventurarmi per la città, benché non avessi ancora l’età per poterlo guidare.

Andavo a trovare una compagna di scuola che abitava in collina, sui Tre Monti e mi pareva di andare in capo al mondo.
Con lei e altri amici andavamo alla pista da cross, che era più o meno a metà del giro ad anello dei colli. Su per quelle salite bisognava aiutare il motore pedalando perché spesso si montava in due sul motorino e bisognava anche “tirare” un amico in bicicletta, ossia il ciclista si attaccava con la mano al tuo braccio e così gli risparmiavi la fatica della salita.

Una volta fusi il càrter di plastica del mio Ciao. Non ebbi il coraggio di dirlo a casa, non so bene che scusa inventai, finché un amico di buon cuore mi trovò il pezzo di ricambio usato e lo sostituì.

Girando per le sterrate si mettevano alla prova le forcelle dei motorini, scassandole in poco tempo, e arrivati alla pista si potevano ammirare i più coraggiosi che andavano su e giù per il breve percorso, facendo salti e “derapate”.
Il mondo dei motori mi affascinò, imparai a guidare le moto con le marce e chiesi a casa che, per la promozione, mi regalassero il “College”, un cinquantino con le marce a pedale.
La mamma strepitò, non capiva che io ero una motociclista nata, ma fu il babbo a metterla a tacere: “Daj un taj! ‘Sra’l mai, Cosa sarà mai, ci sono dei mali peggiori. Ció, l’è fata acsè. Bisogna prenderla per come è fatta!!”.

La mamma era una che non si rassegnava, ci provava a farmi diventare una brava donnina, ma il babbo aveva le idee chiare e andò dal suo amico Guerra, rivenditore di moto a Porta dei Servi, e mi comprò un motorino rosso con le marce, quasi nuovo: che conquista, che soddisfazione, che babbo! Che estate!

Ci si vedeva con gli amici attorno alle panchine di viale Dante, vicino alla gelateria Polo e i ragazzi più grandi, appena patentati, ci facevano scuola guida a noi ragazzini lungo il percorso del giro dei Tre Monti, anche a me che ero una femmina birbante, e su e giù, fra una curva e un’altra, imparai a guidare le moto di cilindrata e la Fiat 500, con tanto di doppietta e punta-tacco in scalata. Mi si aprì un futuro da pilota! Che sbrago!

Così va la vita. Animali, fumetti e motori fino a 14 anni, quando la vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro sfogliato a caso; poi ti tocca crescere, mettere ordine, arrivano gli ormoni e la vita comincia a complicarsi un po’. Lo scriveva anche un grande filosofo.

(Roberta Giacometti – Foto archivio dell’autrice)