Beau Wessermann è un uomo al limite della paranoia, orfano di padre e con una madre onnipresente. Dopo aver appreso della morte della madre, intraprende un viaggio omerico pieno di flashback, metafore e allegorie per assistere al funerale della defunta.

Ari Aster, il regista del dibattutissimo “Beau ha paura”, raggiunta una certa notorietà con “Hereditary” (2018) e “Midsommar” (2019), eletto tra i rappresentati dell’elevated horror, propone ora un film molto meno commerciabile e profondamente psichico. Prodotto dalla frizzante A24, che sta sempre più scuotendo l’industria hollywoodiana, “Beau ha paura” è un’opera dalla ciclopica durata di 2 ore e 59 minuti, che si avvale del recente premio Oscar Joaquin Phoenix, per dare concretezza ad un personaggio astratto ed in balia di un’acuta psicosi.

Un film del genere non può che dividere: la trama perde di linearità con l’utilizzo di flashback, visioni e proiezioni di un futuro non ancora vissuto. L’ondeggiamento narrativo è pienamente assecondato dagli aspetti tecnici della pellicola (scenografia e sonoro su tutti).
Il personaggio di Beau risulta vicino all’essenza dell’antieroe ma non lo incarna del tutto. Anch’esso, come il film, ondeggia. Sopraffatto dall’indecisione, non sceglie. Non sceglie neppure di non scegliere. Si lascia trascinare al largo, ignavo.

La metafora dell’andare per mare, alla mercé dei venti del destino, con il desiderio di approdare ad un porto sicuro è, in questo caso, sinestetica. L’acqua, richiamo al liquido amniotico che fuoriesce durante il parto, con cui si apre il film, è presente anche in chiusura. Nelle ultime scene, infatti, Beau si trova su una barca, circondato da un tribunale dai rimandi uterini, che lo giudica colpevole per non avere mai dato amore alla madre.

Se il rapporto con l’acqua è simbolo del legame tossico con la madre, risulta allora sapiente l’iniziale panico di Beau quando si accorge di non avere bottigliette in casa e, ugualmente, l’irruente e viscerale lotta con un estraneo nella vasca di casa sua, che richiama l’idea di un mescolamento embrionale.

Il personaggio della madre è castrante nei confronti del figlio: si percepisce la volontà di essere amata ed apprezzata, che con molta probabilità l’ha portata ad avere un figlio ed allontanarne il padre. Il desiderio di essere venerata la porta a vincolare il figlio ad avere lei sola come punto di riferimento. Questo limite è imposto soprattutto nella sfera sessuale. La madre infonde la paura del sesso in Beau, raccontandogli come alla sua perdita della verginità sarebbe corrisposta anche la morte, come in precedenza avvenuto al padre.

È dunque il primo rapporto sessuale del protagonista l’apparente liberazione dalla figura materna e la consacrazione di una propria personalità. Apparente sì, perché la figura della madre lo accompagna imprescindibilmente, così come il senso di colpa e la paura.

In questo “Grande Fratello” (orwelliano, per carità), Beau è controllore e controllato, guardia e carcerato, tanto che è possibile pensare che il suo viaggio sia solamente, o in parte, mentale.

La madre sembra essere artefice del giogo psicologico a cui è sottoposto Beau, ergendosi a figura mariana. Il protagonista, infatti, nel suo viaggio porta una statuetta rappresentante una madre con il figlio in braccio. Quando raggiunge la casa della madre, si nota la stessa figura, proposta in versione imponente, all’ingresso dell’abitazione.

Quelli proposti sono alcuni tra i tanti riferimenti e segnali dell’intricata e grottesca condizione del personaggio, il cui viaggio è reso attraverso immagini straordinarie e idee registiche brillanti.

Il film è quindi infinitamente interpretabile. Aster abbonda con metafore, numeri, allegorie e possibili indizi che potrebbero portare ad una maggiore comprensione della trama, anche se pare che il regista lasci volutamente aperta l’interpretazione.

Beau ha paura” è, dunque, un’opera magistrale proposta nel migliore dei modi. La storia può dividere, ma è certo che Aster volesse proprio raccontarla.

(Leonardo Ricci Lucchi)