Imola. Emanuela Cenni è una psicologa e psicoterapeuta, si occupa di psicoterapia individuale e familiare. E’ in forza al Dipartimento di Salute mentale dal luglio 2022 e, nell’ambito dei progetti trasversali, è una delle referenti del progetto che coinvolge gli Esp (Esperto per esperienza).

Foto di Serena Wong da Pixabay

Partiamo proprio dalla figura dell’Esp per capire meglio di cosa stiamo parlando.
Esp sta per Esperto per esperienza, ovvero una persona che, a partire dalla sua esperienza di sofferenza (nel nostro caso mentale), può portare la sua testimonianza di guarigione a chi sta vivendo una simile sofferenza. Si tratta di una figura della quale, a livello teorico se ne parla da tempo.
Sono già stati realizzati diversi convegni sul tema, l’ultimo appunto a Imola a febbraio 2023. A livello pratico è, invece, una figura piuttosto giovane che da qualche tempo viene inserita a livello sperimentale all’interno dei servizi di salute mentale.
Parliamo di un ruolo molto importante, dalle grandi opportunità che, chiaramente, non va a sostituire gli operatori, ma ad integrare il loro operato. Un’opportunità in più per l’utente che si rivolge a noi perché è una testimonianza reale e concreta. L’Esp permette una sorta di rispecchiamento. ‘Tu che hai vissuto ciò che io sto vivendo ora, sei la prova che è possibile guarire’. L’esperto tra pari, quando si crea un buon dialogo tra le parti, può aiutare l’utente a capire quello che sta vivendo, riuscendo anche a evitargli certi passaggi dolorosi. Deve comunque instaurarsi un rapporto di fiducia, che può essere facilitato dal fatto che l’Esp ha già vissuto questa esperienza. Una sofferenza difficile da comprendere e definire.

Quindi, un qualcosa difficile da comprendere…
Certo stiamo parlando di un qualcosa che è intangibile, che ha confini confusi, si fa fatica a separare quello che io sono dalla parte che sta soffrendo. Spesso quest’ultima parte non viene capita, oppure viene fraintesa o giudicata. L’Esp in questo ambito può davvero essere di grande aiuto perché si tratta di una persona che ha vissuto quella sofferenza. In qualche modo ne è uscita, ha raggiunto la sua recovery e può trasmettere indicazioni utili al paziente. Una tipologia di sostegno che non può trasmettere l’operatore che, per ruolo, non incarna questa parte di vissuto. Ci sono contesti, ad esempio il Montecatone Rehabilitation Institute dove questa figura opera da tempo con risultati molto positivi.

Quali sono le difficoltà nell’integrare l’Esp all’interno dell’equipe di cura in un servizio di salute mentale?
“Il percorso di integrazione non è semplice ma praticabile. Nel nostro lavoro la cura non riguarda solo l’aspetto medico e farmacologico. La cura passa attraverso la costruzione di una relazione ed è in questa che l’Esp può portare un valore aggiunto. Per poter creare questa opportunità è, però, importante trovare un giusto equilibrio e un giusto spazio.
L’incontro tra l’utente e l’Esp va fatto con le condizioni favorevoli affinché possa esserci quel rispecchiamento che crea la fiducia verso la cura e la guarigione. Nel sottolineare l’importanza di avere cura di questo incontro, non mi riferisco solo alla tutela della salute del paziente, ma anche a quella dell’Esp.
Parliamo di una persona che è stata male, che ha vissuto la sofferenza mentale e potrebbe tornare a star male. Quindi occorre inserire queste persone in un contesto che prevede la loro presenza con spazi e compiti precisi in cui poter essere d’aiuto, senza fare del male a sé stessi, perché sappiamo che stare a contatto con la sofferenza porta sofferenza e questo vale per tutti, compresi noi operatori.

Esiste un rischio di sovrapposizione di ruoli?
“Non c’è il rischio di invasioni di campo, proprio perché ciascuno è portatore di competenze diverse. E’ importante prevedere un percorso progressivo di inserimento dell’Esp. Ci sono meccanismi delicati che devono essere messi a punto.
Laddove l’Esp è ben integrato, il suo ruolo e i suoi spazi diventano naturali. Poi è chiaro che subentrano anche le soggettività delle persone, vi può essere l’operatore più aperto verso questa esperienza, oppure un Esp più abile ad entrare in relazione.
In generale se portiamo l’attenzione nelle zone di confine tra le due competenze, in realtà scopriamo che si crea inevitabilmente un’integrazione. Ad esempio se il medico parla di sintomatologia collaterale del farmaco, l’Esp può raccontare la sua esperienza, quindi le due cose diventano una forza, non un conflitto.
Il riconoscimento dell’Esp come figura attiva nel percorso di cura è fondamentale per evitare tutte le volte di dovere individuare lo spazio giusto e giustificare la sua presenza. Perché non è scontata neppure l’accettazione dell’Esp da parte del paziente….

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

In effetti, cosa ci racconta l’esperienza su questo fronte?
Non è così scontato che una persona che arriva al servizio voglia parlare con qualcuno che ha vissuto i suoi stessi problemi. Anche se sappiamo che sarebbe molto utile. Questo succede anche a Montecatone e quell’esperienza ci aiuta a capire che la malattia ha delle sue fasi. Una di queste è l’accettazione del proprio problema.
Finché rifiuto di avere un problema rifiuto l’aiuto che mi viene dato. Se qualcuno che ha vissuto la mia stessa esperienza mi viene a raccontare che ce la posso fare potrei raggiungere prima quell’accettazione.
Questo spazio di incontro va quindi creato ed è per questo che parlo di tempi e spazi giusti. L’utente deve vedere l’Esp come una risorsa e l’Esp deve sentirsi una risorsa. Se non è così rischio di mettere in difficoltà entrambi.

A che punto siamo con il riconoscimento della figura dell’Esp?
Intanto è importante che se ne parli, nei convegni, negli incontri, nella formazione, specifica, o comunque dove il tema viene affrontato. È importante che si sedimenti e diventi cultura. Rispetto ai primi anni dove ho partecipato a corsi o convegni, già oggi si avverte maggiormente l’opportunità di questa figura e le sue potenzialità.
Poi vi sono i dati scientifici che arrivano dall’estero, in particolare da quei paesi che hanno strutture sanitarie pubbliche per certi versi più fragili rispetto alle nostre, che sono quindi portati a sperimentare di più attraverso enti privati. E quei dati ci dicono quanto sia valida la figura dell’Esp. Si tratta di un percorso di avvicinamento progressivo e io credo che ci siano buone prospettive anche nel nostro territorio.

Che importanza assume la formazione in questo contesto?
“Non essendoci ancora il riconoscimento istituzionale della figura dell’Esp, anche la formazione ha subito in questi anni molte evoluzioni. Vi è stata una formazione in ambito regionale, i nostri attuali Esp vengono da quel percorso formativo.
Più recentemente è partita anche una formazione a livello nazionale, finanziata direttamente dal ministero della Salute e gestita dall’Asl di Torino. Nei fatti i due percorsi sono molto simili a livello di contenuti e di metodologie. Entrambe prevedono ore di tirocinio e un iter lungo un anno. Vi è stata una selezione a maglie strette che ha individuato 22 partecipanti, due di questi sono dell’Ausl di Imola.
Il percorso formativo che stanno svolgendo fornirà una serie di competenze che riguardano la capacità di ascoltare, di relazionarsi, di entrare in empatia con l’altro. Un percorso completo che prevede anche una crescita personale, perché nel momento in cui io mi metto in ascolto con l’altro, le sue emozioni, i suoi racconti, le sue storie mi entrano dentro e, quindi, devo saperle gestire. Poi, come per tutti gli operatori, vi saranno aggiornamenti continui perché tutto evolve, quando penso di sapere, scopro un’altra angolazione, un altro punto di vista che mette in discussione quello precedente.

Un aspetto importante lo svolgono i tirocini…
Prima abbiamo parlato di ‘ingranaggi’ nei quali bisogna entrare per fare spazio alla figura dell’Esp. I tirocini servono anche a capire questo. Diventano una occasione per comprendere nel concreto il ruolo dell’Esp. Per l’Esp sono una esperienza di messa alla prova ma in parallelo lo sono anche per gli operatori e per gli utenti. Permettono quel passaggio dalla teoria alla pratica di cui abbiamo tutti bisogno.

Che ruolo possono svolgere le associazioni di familiari?
Sono realtà molto importanti, se come operatore non mi relaziono con loro perdo un pezzo importante della persona che ho davanti. Quando la prendo in cura devo capire che il suo mondo emotivo interiore è strettamente collegato a quello relazionale e, di conseguenza a quello della sua famiglia.
Nel dialogo con i familiari possono emergere anche cose scomode che possono però aiutare nel percorso che devo costruire con il paziente. Quindi ci può aiutare a fare meglio il nostro lavoro e nello stesso tempo aiuta loro a sentirsi un po’ meglio.
La malattia di un familiare mette in moto dei meccanismi di autocolpevolizzazione che porta a una profonda sofferenza. Quindi il loro coinvolgimento li può certamente aiutare a sentirsi parte del processo di cura del proprio congiunto. Di fronte a situazioni così complesse credo sia importante rispondere all’esigenza di riuscire a fare qualcosa per il proprio caro.
Quando siamo seduti al tavolo, siamo tutti persone. C’è un pezzo di genitore, un pezzo di esperto, un pezzo di operatore, ecc… è molto utile avere tutti i punti di vista. Le varie esperienze, le varie competenze, i diversi vissuti, messi tutti assieme possono portare a un risultato migliore.

(v.z.)