A 7 anni fui spedito a pascolare le pecore. In famiglia eravamo cresciuti. Undici coi due nuovi arrivati. Molte bocche da sfamare.
Lunghe giornate in solitudine con pane e formaggio per pranzo, un coltellino multiuso e il cane Pippo, mio complice inseparabile.
Il gregge contava una trentina di capi, incluso un montone con cui non correva buon sangue. Mi era stato affidato un piccolo capitale che portavo al limitare del bosco di castagni confinante con il terreno di un vicino coltivato a erba medica.
Avevo imparato a riconoscere le pecore una per una. A dispetto dei luoghi comuni ce ne erano alcune ribelli e testarde. Faticavo non poco a tenerle nei ranghi.
Una in particolare, la Bianchina, sembrava nata per dispetto. L’avevamo chiamata così perché era più bianca delle altre.
La Bianchina era la prova vivente che la reputazione negativa delle pecore nere è un pregiudizio sulla diversità. Era invece vero per lei che l’erba del vicino è sempre più verde.
Non so se le pecore vedano il mondo a colori e con gli stessi con cui lo vedono gli umani. Fatto sta che immancabilmente sconfinava per brucare l’erba che per lei doveva avere un sapore particolarmente gustoso.
Non c’era verso di ridurla e lui andava su tutte le furie e si lamentava animatamente con nonno Piero e mio padre che se la prendevano con me.
Per evitare nuove grida e discussioni avevo cercato un modo per dissuaderla dagli sconfinamenti impropri. E l’avevo trovato. Quando la sorprendevo nelle intenzioni o a misfatto compiuto le gettavo la giacca sulla testa sprofondandola nell’oscurità.
Lei iniziava a girare su se stessa come impazzita nel tentativo di liberarsi del corpo estraneo, senza riuscirci. L’avevo in pugno.
Mi divertivo a vederla così terrorizzata e agitata e godevo di quella soluzione che mi faceva sentire potente. I bambini sanno essere cinici alla soglia del sadismo. Ma per me era legittima difesa. Dopo un po’ che si dimenava la liberavo. Si accasciava sfinita col cuore a mille. Il chè non le impediva di riprovarci. Una pecora.
Il montone mi fissava sempre, aggressivo. Ce l’aveva con me. Lo ignoravo per non provocarlo. Ma la bestia, vigliacca, appena mi voltavo mi colpiva alle spalle.
Non facevo in tempo ad avvertire il rumore della terra smossa dalla carica in corso che Bam! Mi ritrovavo a terra qualche metro più in là, stordito.
Il dolore era così forte da impedirmi perfino di piangere.
Montava la rabbia ma ero indifeso e non potevo fare nulla.
Un patrimonio affidato alla mia responsabilità. In quei momenti il senso di solitudine mordeva forte e, impotente, mi lasciavo dominare dallo sconforto.
Quasi ogni giorno mi feriva con quelle corna che avrei segato volentieri.
Un giorno non ci ho visto più.
Gli ho tirato un’imboscata.
Ho sistemato la giacca sui cespugli che delimitavano da un lato il pascolo e dall’altro il precipizio sul fiume e mi sono nascosto.
Aspettavo.
Ha abboccato come un pesce.
Ha caricato, come sempre, certo di andare a bersaglio ed è caduto di sotto, sul greto del fiume.
Mi sono sporto per assicurarmi della fine di un incubo. L’animale giaceva laggiù inerte in una pozza di sangue. Il cuore batteva forte e mentre guardavo, la coscienza si risvegliava alla realtà. Ineluttabile. L’avevo fatta grossa!
Non potevo presentarmi a casa senza il maschio del gregge.
Le orecchie cominciavano a ronzare e la testa ad agitarsi, il respiro affannoso spingeva i pensieri alla ricerca di una via di uscita.
All’imbrunire ho ricoverato le pecore come sempre e di soppiatto mi sono dato alla macchia senza una meta.
Mio nonno mi avrebbe ammazzato di botte.
Mi mancava il coraggio di affrontarlo.
Sono entrato nel castagneto avvolto nell’oscurità e nel silenzio, rotto dai versi della civetta e del ciù.
Suoni che conoscevo bene, ma che in quella circostanza vibravano sinistri e drammatici.
Una mezza luna penetrava fra il fogliame. E l’ho visto! Un enorme castagno dal tronco cavo. Mi sono rifugiato lì, avvolto dalla sua corteccia.
Mi sentivo al sicuro.
Quella sera non sono tornato a casa. Non sono tornato per tre giorni.
Il giorno seguente mio padre mi ha trovato. La notizia della tragedia si era diffusa.
Ci volle poco a collegare il fatto con la mia scomparsa.
Preoccupato, ma non arrabbiato, capì.
Complice, ogni giorno mi portava qualcosa da mangiare in attesa che passasse la buriana.
Quando tornai nonno Piero era ancora furioso. Lo sguardo di fuoco mi giungeva come un silenzioso rimprovero. La temperatura del clima domestico era ancora alta, appena mitigata dalla festosa accoglienza delle donne di casa. Per cena si mangiò carne di montone.