Sono di dirompente attualità le tematiche affrontate da Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo nel loro libro “L’ultimo metrò – L’Europa tra crisi economica e crisi sanitaria” (Edizioni Mimesis), costituito da un insieme di saggi, alcuni recentissimi, altri già di qualche anno fa, ma tutti imperniati su una valutazione nel tempo dello stato dell’arte del progetto di unificazione europea e su un’interpretazione della sua attuale impasse, dopo le successive ondate della crisi del 2008, della pandemia e del conflitto tra Russia e Ucraina. Questo testo, estremamente “denso” e difficile da sintetizzare, ci offre una chiave di lettura unitaria e tutt’altro che banale, sorretta da una grande profondità analitica.
Una crisi generata dalla finanza
La tesi di fondo dei due autori è che la crisi, nell’Eurozona, è essenzialmente generata dalla finanza, secondo un approccio che combina Marx (analisi di classe) e l’ultimo Keynes (analisi macro-finanziaria). Si tratta una tesi molto diversa da quelle più diffuse, che riconducono le crescenti difficoltà di crescita dei Paesi europei o all’eccessivo debito pubblico (linea interpretativa liberista, a fondamento delle misure di austerità degli scorsi anni) oppure a squilibri commerciali crescenti nei Paesi europei (idea comunemente accettata in ambito postkeynesiano e a sinistra). Bellofiore e Garibaldo stigmatizzano invece “i limiti interpretativi [di] uno schema di ragionamento macroeconomico per ‘isole’ e inter-nazionale” (p.14) e sottolineano che “non furono gli squilibri commerciali dell’eurozona a generare quelli finanziari, fu semmai il contrario” (id.).
Il primo capitolo, dall’emblematico titolo “Quo vadis, Europa?”, comincia con una sintesi ragionata delle interpretazioni di alcuni economisti “eterodossi” sulle più recenti trasformazioni dell’UE. Il primo è Joseph Halevi, il quale dimostra che la crisi della costruzione europea ha radici antiche: già il Trattato di Maastricht, prodotto della tecnocrazia socialista francese e dell’ordoliberalismo tedesco, aveva posto le basi per un impianto istituzionale contrario alla redistribuzione del reddito e alle ragioni del mondo del lavoro, per superare il quale non bastano politiche monetarie più espansive, come il quantitative easing della BCE.
L’attenzione si sposta quindi sul testo di Celi e altri (“Una Unione divisiva. Una prospettiva centro-periferia della crisi europea”), uscito subito prima della pandemia, che indaga sull’articolazione delle catene del valore europee, e di come hanno influito in modo ineguale sullo sviluppo dei paesi del centro e della periferia: un’interdipendenza produttiva negata dalle politiche economiche dell’UE che schiacciano la periferia e tagliano gli investimenti pubblici. Dopo la crisi del 2008, mentre le strutture produttive dei paesi membri andavano divergendo, la scelta politica dell’establishment franco-tedesco fu di scaricare queste divisioni sui paesi deboli dell’Unione, mentre alla BCE di Draghi fu richiesto di immettere liquidità nel sistema finanziario per impedire il collasso dell’Eurozona. In tutto questo, il contenimento dei salari ha aiutato la profittabilità delle aziende ma a scapito della crescita complessiva, in cui anche il piano Industria 4.0 si è tramutato in aumento dei ritmi di lavoro e della fragilità complessiva delle catene produttive.
Il terzo volume trattato, “La riconquista” di Saraceno, affronta questi argomenti a emergenza pandemica esplosa, chiedendosi quanta possibilità di scelta ci fosse nelle decisioni che hanno condotto alla crisi. Saraceno coglie la discontinuità nella politica monetaria dopo la pandemia, soprattutto in termini di mutualizzazione del debito, ma non ha fiducia nella possibilità che questa svolta divenga positiva e permanente, alla luce del dilagante sovranismo. In sintesi, i tre testi presentati dagli autori evidenziano l’insostenibilità delle politiche neomercantiliste. Ma allora, quali proposte di policy possono far avanzare seriamente il progetto europeo?
Bellofiore e Garibaldo ricercano un’interpretazione del crollo del neoliberismo tramite il libro di Adam Tooze (“Lo schianto: 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo”), il quale, utilizzando una prospettiva storica (spesso trascurata dalla teoria economica classica), nega che la crisi sia dovuta agli squilibri commerciali tra paesi, legandola invece al tema del credito. La finanza ha guidato le dinamiche dell’economia mondiale ed è stato il crollo di alcuni mercati finanziari a generare l’effetto domino. Inoltre, Tooze critica l’immobilismo della BCE e le incertezze della politica fiscale dell’Unione Europea, soprattutto analizzando il caso della Grecia, schiacciata dalla troika ma anche dalla debolezza del governo di sinistra di Atene. L’architettura istituzionale dell’Eurozona non ha però ostacolato la BCE, che con Draghi ha comunque intrapreso iniziative in precedenza neppure considerate.
Nel terzo capitolo gli autori si concentrano sulla crisi dell’Europa a seguito delle vicende del 2007-2008. Sottolineano che nel capitalismo iper-globalizzato produzione e finanza sono inscindibili, e al crescere del peso della finanza cresce anche l’importanza delle catene produttive continentali e mondiali, come si è visto con la Brexit e le vicende della pandemia e della guerra. Questa ragnatela produttiva è associata a una non meno complessa matassa di rapporti finanziari che prima della crisi non era compresa. Questo spiega il paradosso per cui la bolla dei mutui subprime ha affondato soprattutto banche europee, spia delle inadeguatezze delle istituzioni europee a intervenire sulla crisi. Va però ricordato che, secondo vari autori, la crisi europea è una conseguenza di quella statunitense e quest’ultima trae origine nel mercato del lavoro, non nella finanza. Bellofiore e Garibaldo sembrano invece rigettare questa interpretazione, lasciando in generale le analisi sul mercato del lavoro in secondo piano.
Unione monetaria, perfettibile ma imprescindibile
In quegli anni, la crisi dell’euro aveva condotto a un dibattito su una diversa moneta per l’Europa, con proposte che presupponevano però la subordinazione della finanza alla politica, ad esempio attraverso controlli sui movimenti di capitale, e per questo irrealizzabili. Data la situazione delle strutture produttive mondiali, è opinione degli autori che fosse inutile all’epoca discutere di uscita dall’euro: senza un diverso rapporto tra finanza e governo, farlo sarebbe equivalso semplicemente a svalutare, senza nemmeno garantire il recupero della “sovranità”. La finanza europea ha investito troppo sull’euro per rinunciarvi. Né paiono risolutive soluzioni come l’euro a doppia velocità, che non ridurrebbero la centralità industriale tedesca, né la subordinazione del tessuto produttivo dei paesi europei più deboli alle catene produttive globali. Secondo gli autori, “l’unico possibile motore dell’evoluzione capitalistica non può che essere la spesa pubblica: una spesa pubblica in disavanzo, e che sia di entità così consistente da spingere temporaneamente verso l’alto il rapporto debito/PIL”: in pratica, un’economia della produzione sociale che punti su investimenti utili, senza sprechi, capaci di creare un nuovo sviluppo. Un radicale New Deal con un’economia tesa “a soddisfare bisogni fondamentali della popolazione”, razionalizzando la spesa per forniture sociali e investimenti che siano volano di un’economia diversa. “Un’inversione qualitativa” della politica economica, che entra nel merito di cosa, quanto, come e per chi produrre, inquadrando lo stimolo finanziario secondo altre finalità. Un approccio che ribalta l’interventismo neo-liberista, passando da una logica secondo il capitale a una secondo il mondo del lavoro. Tale trasformazione deve però avvenire sulla spinta di nuove soggettività sociali e politiche.
A proposito di uscita dall’euro, gli autori evidenziano i danni che procurerebbe l’Italexit, sia per la svalutazione della nuova moneta sostitutiva dell’euro – e dunque all’inflazione importata – sia per l’inefficacia della svalutazione per la crescita (pp.41 ss.). Chi sostiene la necessità del ritorno alla lira argomenta, infatti, che l’abbandono dell’euro è una precondizione per attivare crescita economica in Italia, attraverso soprattutto il canale delle esportazioni, ma riconosce che il ritorno alla lira può generare o amplificare effetti inflattivi. In realtà l’Italexit rischia di non produrre il primo effetto e di generare solo il secondo, ovvero solo inflazione. Ciò a ragione del fatto che, come mostrato dagli autori, la svalutazione del tasso di cambio, soprattutto nel caso italiano, non solo non traina le esportazioni (ma genera inflazione importata) ma soprattutto accentua i divari interni, fra aree del Paese con imprese dotate di diversa propensione alle esportazioni. I mercati finanziari non intendono pagare il conto che dovrebbero affrontare in caso di uscita dell’Italia dall’euro.
La Pandemia, come paradigma di un modello economico da superare
Il quarto capitolo concerne gli effetti della pandemia sulla situazione europea già prima delineata. Il punto di partenza è che “la crisi sanitaria non è uno shock esogeno: è al contrario del tutto interna alla forma sociale capitalistica di produzione, circolazione e consumo” degli ultimi vent’anni. Pertanto, sostengono Bellofiore e Garibaldo in modo piuttosto provocatorio, la crisi sanitaria è endogena e strutturale: deriva, cioè, dalla nuova configurazione del rapporto capitale-natura ed è destinata a durare e a riprodursi. Gli autori sollecitano, a riguardo, la già ricordata riformulazione del modello di sviluppo – basato su un’analisi di classe e macro-finanziaria – legata a un’“economia della produzione sociale” (p.18), con un “intervento diretto sulle strutture produttive” (p.15). Come nel caso del “whatever it takes”, a Draghi va dato atto di aver capito la nuova situazione: non più tagli, ma espansione del debito pubblico e dell’intervento statale nell’economia. L’intervento senza precedenti di governi e banche centrali è riuscito a tamponare il crollo economico, ponendo le basi per una ripresa già nel 2021. La stessa discussione sulla mutualizzazione del debito era rimasta sottaciuta per anni, ma il Covid-19 ha costretto a un cambiamento di rotta di cui il PNRR è stato il risultato più eclatante (anche se, come vedremo, non tale da rivoluzionare la governance dell’Unione).
Nell’analizzare come la pandemia ha inciso sulle debolezze dell’UE, gli autori sottolineano che l’errore è credere che vi sia una “normalità” a cui tornare, come se le crisi periodiche, la pandemia e la guerra, fossero “episodi”. La prospettiva va rovesciata: il percorso di sviluppo del progetto europeo va pensato in questo “legame interno tra la crisi sociale e la crisi ecologica”. “Il comando politico della composizione della produzione è una caratteristica normale e permanente del capitalismo del XX secolo e oltre”. Il tema non è dunque se debba esserci un ruolo per l’intervento pubblico, che non è mai cessato, ma come impiegare queste risorse.
Il Pnrr e l’ambivalenza di Draghi
Il quinto e ultimo capitolo mette appunto a fuoco la discussione su come utilizzare le risorse pubbliche in particolare del PNRR, per intervenire nelle trasformazioni dell’industria e del lavoro. La risposta europea alla crisi “ha rappresentato uno stimolo senza precedenti sia dal punto di vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo”; incoraggiante è stato anche il trasferimento asimmetrico delle risorse, per ridurre almeno in parte le diseguaglianze nello sviluppo tra i paesi europei. La governance europea non appare però ancora mutata, e permane un’assenza di coordinamento nel campo industriale, ove i paesi più forti hanno continuato a rafforzare la propria quota nazionale nella creazione del valore. Nonostante la mutualizzazione del debito e il PNRR dunque, l’Europa non sembra andare nella direzione di una maggiore unità, faticando a reggere l’ondata sovranista. Il capitolo si chiude con un focus sull’industria italiana, povera di investimenti su qualità e innovazione, per cui è prevedibile che le risorse europee si tradurranno in un massiccio trasferimento di risorse dal settore pubblico all’impresa privata, senza alcun beneficio per contrastare un declino produttivo ben espresso dall’esempio del settore automotive.
La prima delle due appendici del volume tratta del governo tecnico 2011-2013, che fece sperare in una stagione riformatrice con la sponda della BCE di Draghi. La successiva débâcle elettorale di Monti fa sì che oggi quel governo sia ricordato solo per la Riforma Fornero. La seconda appendice analizza gli stessi anni ma dal punto di vista di Draghi, analizzando un suo discorso in ricordo del suo maestro Federico Caffè. Secondo gli autori, l’orientamento di Draghi (sottomissione dei sindacati per contenere l’inflazione, riforme strutturali, prudenza fiscale) non appare innovativo, nemmeno quando egli spiega che non basta liberalizzare il mercato del lavoro: “Bisogna rivolgersi anche ai mercati dei prodotti e dei servizi, e liberalizzare quando è necessario”, poiché in realtà si tratta di una giustificazione delle privatizzazioni. Quando si tratta di articolare un percorso di reale cambiamento in Europa, il discorso di Draghi diventa molto più generico. Così, alla fine nemmeno il “whatever it takes” è riuscito ad andare oltre i mercati finanziari per farsi progetto politico. Vi è da dire che Bellofiore e Garibaldo non trattano di quello che fu l’ultimo grande progetto di respiro comunitario della BCE di Draghi, ossia l’Unione Bancaria del 2014, per garantire la solidità del settore finanziario europeo rompendo il legame tra stati e banche in termini di debito pubblico e connessioni politiche.
In definitiva, il testo offre una lettura ragionata della genesi dell’Unione Economica e Monetaria, una ricostruzione delle radici delle sue crisi e, inoltre, una lucida analisi riguardo le trasformazioni dell’industria e del mondo del lavoro nel XXI secolo. Gli autori hanno il merito di esaminare l’impasse del progetto europeo in una prospettiva storica, slegandosi da singoli episodi e provando invece a delineare un percorso concettuale alternativo a quello dominante da Maastricht in poi. Il testo riflette sulle origini finanziarie della crisi iniziata 15 anni fa con l’esplosione del mercato dei mutui subprime, sul maggiore ruolo dello Stato (mai venuto meno neanche con l’affermarsi del neoliberismo) e sul keynesismo privato e finanziario come forma contemporanea del capitalismo. Il testo riprende quanto gli autori avevano già argomentato a proposito degli squilibri finanziari globali, letti seguendo le interconnessioni patrimoniali e finanziarie di imprese e banche e i flussi finanziari lordi, enfatizzando il carattere globale e finanziario degli assetti dell’attuale economia. Con l’irrompere della guerra nel cuore dell’Europa, questa analisi si fa ancora più rilevante. L’Unione Europea rischia di svanire come soggetto politico di fronte alla nuova guerra fredda; e questo nonostante sia faticosamente emersa nelle classi dirigenti consapevolezza di “una crisi strutturale” che necessiterebbe di “una metamorfosi strutturale dell’economia e della società”. Questa consapevolezza non è bastata per un reale cambio di passo, ma per lo meno ha aperto gli occhi sulla gravità del contesto, ponendo le basi per alcuni tentativi di superamento dello status quo, non affrontati però, secondo gli autori, con la dovuta risolutezza, poiché avrebbero comportato un radicale cambio di paradigma. L’esplosione dei sovranismi appare allora come la pena da scontare per le troppe indecisioni e contraddizioni dell’Unione Europea.
(m.c.)