Dal duello a sinistra fra l’allora Psi (Partito socialista italiano) e il Pci (Partito comunista italiano), che ha compromesso l’avanzata elettorale del centro-sinistra italiano (ed il suo ideale marxista), ed il vetusto moderatismo della Dc (Democrazia cristiana) è nata il 26 gennaio 1994 l’idea a Silvio Berlusconi di “scendere in campo” politicamente.

Forza Italia, il “partito-azienda” di Berlusconi, al suo interno non aveva infatti inizialmente una classe politica con competenze ed esperienze, bensì gente che continuò ad occuparsi di ciò che faceva prima, sondaggi, pubblicità, organizzazione di eventi, avvocati e perfino tifosi militanti del Milan, tutte persone assoggettate all’unico organo rappresentativo esistente ossia lui, che prendeva in prima persona le decisioni e impartiva ordini.

Un’autostrada di voti (da raccogliere) che il “cavaliere” fiutò analizzando tanto quelle visioni etico-religiose di stampo Dc andate ormai “fuori schema” dalle tendenze reali di una società che frattempo era diventata sempre più ricca, urbanizzata e consumistica, quanto quel deleterio rigore morale dei social-comunisti, ristretti sempre più in “manipoli” non rappresentativi inneggianti ai Gramsci e ai Togliatti e volti a (mal) navigare nei meandri dell’economia di mercato di una società pluralistica stanca dei guai di una pubblica amministrazione inefficiente, di un sistema giudiziario ingessato e di una politica poco trasparente.

L’immagine di Berlusconi ha fatto da contraltare a quella dell’impresario edile, dell’uomo della televisione, del fondatore di un partito fino a diventare capo di governo seguendo uno schema che, dall’alto della sua ricchezza, ha sempre “suggerito” ai suoi compagni di classe una mission poco propensa a distribuire ricchezza per il bene comune. Molto attenta, invece, ai propri affari e di quelli dei suoi “clienti”, con la logica di farsi obbedire facendo un favore alle sue televisioni, sempre semmai a esponenziare l’ambizione di salvare il suo Paese dal comunismo veleggiando verso una democrazia autoritaria.

Il suo assioma del 1994 di “…non voler vivere in un Paese illiberale…” è comunque stato sempre stridente perchè non si guida (bene) un Paese con la sola morale, sebbene non si faccia meglio senza, ed ancor più senza due etiche che nel suo caso spesso sono rimaste nel dimenticatoio ovvero quella di cittadino (con i propri doveri) e quella di chi vuole rappresentarlo che di solito è espressa con il termine di “onorevole”, che significa stimabile e degno.Valori che in Berlusconi spesso sono venuti a mancare fin da quando fondò la Casa delle Libertà con Fini e Casini accogliendo finanche Bossi, sebbene al “Cavaliere” gliene avesse dette fino allora di tutti i colori.

L’interpretazione ed il manifesto su (quasi) tutti i mali possibili che una Tv commerciale potesse partorire si realizzò grazie alle (sue) reti Mediaset negli anni ’80 con trasmissioni come “Colpo Grosso”, accusata dall’utenza bigotta di quel tempo di infierire moralmente sul corpo delle donne, o come “Drive In” rea di sbandierare un linguaggio troppo trasgressivo, filo palestinese e antiamericano per un’Italia appena uscita dal “grigiore” della Rai e dagli anni di piombo.

Come dalla vicenda giudiziaria di Tangentopoli ha preso il via la straordinaria vicenda politica di Berlusconi da un’altra sentenza (processo Mediaset) si è chiusa la sua vita parlamentare, e da quel momento nulla è più stato come prima come in un epilogo già scritto: scissione del partito, crisi di quell’esecutivo da lui presieduto finanche al terrore del carcere.

Un uomo, Silvio Berlusconi, che pur arrivato stremato al finale della sua storia politica (e della sua vita) non ha mai trovato né voluto successori, e anzi ha sempre paventando la voglia di (ri) vivere i fasti del passato nonostante l’incandidabilità e la consapevolezza che indietro, al ’94, non sarebbe mai più potuto tornare.

(Giuseppe Vassura)