Il più piccolo dei miei fratelli arrivò in tempo di guerra. Era l’ottava gravidanza di mia madre. Le prime doglie si fecero sentire in un pomeriggio di inizio primavera. In lontananza, gli scoppi delle armi da fuoco echeggiavano minacciosi. In piena linea gotica, le bande partigiane contrastavano la ritirata delle truppe tedesche. La paura era tanta. Un sentimento condiviso che aveva cambiato in parte le abitudini della comunità. Al calar del giorno ci si chiudeva in casa circospetti, scongiurando il peggio. Mio padre, col tono affannoso che annuncia il precipitare degli eventi, mi mandò a chiamare la levatrice che stava a Tramezzo. Avevo 15 anni.

Mi avviai giù per il sentiero di corsa. Il terrore a fior di pelle era consapevolezza del rischio. Il crepitio delle raffiche delle mitragliatrici non accennava a diminuire. Percepivo il fischio lontano che annunciava l’imminente scoppio delle bombe e, più forte degli altri, moriva in un bagliore fragoroso percepito a pochi metri.

Mi buttavo a terra fra i cespugli con le braccia sulla testa e stringendo gli occhi. “Non ci sono, non ci sono, non ci sono” ripetevo quasi con ossessione, come se quella specie di mantra potesse farmi da scudo.
Giunto alla passerella di legno e corde dove si attraversava il fiume, mi sentii esposto, senza difese e, per un attimo, senza scampo.

Così, sospeso fra cielo e terra su quel passaggio fragile che ondeggiava al vento e ancora di più sotto il mio passo concitato, non sentii neppure il rumoroso precipitare della cascata lì a fianco.
Arrivai di là con un tappo allo stomaco che mi serrava la gola. Il rombo di alcuni aerei militari che sorvolavano la zona mi aggredì le viscere.

Bombardieri (Foto di Defence-Imagery da Pixabay)

Un altro fischio; giù a terra sul margine erboso del sentiero. Sentii un calore bagnato fra le gambe che si espandeva velocemente impregnando la stoffa dei pantaloni.
“Mi hanno colpito” pensai smarrito. Me l’ero fatta sotto. Avrei voluto urlare la paura che mi esplodeva dentro. Rimasi muto. Un senso di vergogna mi paralizzò. Gli occhi si velarono di lacrime per la vergogna, la rabbia, il senso di impotenza.

Non potevo tornare indietro. Il tempo stringeva e immaginavo il respiro affannoso di mia madre per controllare i dolori sempre più frequenti del parto incipiente. Dovevo andare. Mi feci coraggio e proseguii pensando a come nascondere o giustificare le tracce di quell’esondazione emotiva.

La levatrice era in casa. Si affrettò. Prese il necessario e la bicicletta. Ci mettemmo in marcia. Conosceva la strada. Era lei che faceva nascere tutti i bambini nei dintorni.
Il giorno stava rapidamente calando e l’oscurità avanzava sopra di noi. Qualche colpo si sentiva ancora in lontananza.

Correva voce, mi disse, che i tedeschi stavano arrivando. Accelerammo il passo il più possibile. Cercava di distrarmi interrogandomi sulle condizioni di mia madre e parlandomi del fratellino in arrivo. L’imbrunire portò il silenzio. Mi tranquillizzai e arrivammo a destinazione in pieno travaglio.

Mio fratello nacque nella notte, senza complicazioni. Quando finalmente uscì dal ventre materno, il suo pianto ruppe il silenzio rumoroso lasciato dal cessato rimbombo delle armi. Risuonò come la reazione vitale alla tensione e alla paura che, di lì a poco, si dissiparono per lunghi istanti lasciando il posto alla gioia.

Della mia incontinenza non si accorse nessuno e io non dissi mai nulla. In seguito la guerra e i bombardamenti popolarono i miei sogni notturni per parecchi anni.

(Virna Gioiellieri)