Sò, sò, galèna grisa, arvólta la mènga, arvérsa la camisa!”. Ogni mattina la mamma mi svegliava entrando nella mia stanza, pronunciando il suo ritornello con enfasi e battendo le mani.
Poi andava alla finestra, l’apriva e alzava la tapparella. Questa era la mia sveglia.
Usciva dalla stanza ripetendo e scandendo bene le parole: sò, sò galèna grisa, aggiungendo: “Stirati, stirati che diventi grande!”
Mi invitava a stiracchiarmi per bene prima di alzarmi, così i miei muscoli e le mie ossa si sarebbero allungate… Subito dopo si faceva perdonare la brusca entrata portandomi una tazza di caffellatte con l’uovo sbattuto e una fetta di pane con la nutella, che appoggiava sul comodino.
Il suo era il metodo “del bastone e della carota”: da un lato la sveglia repentina, che non dava adito a tentennamenti, e dall’altro la colazione a letto, da brava bimba viziata!

La “galèna” mi svegliava di soprassalto, lo squillo della tromba in un campo militare avrebbe sortito lo stesso effetto: mi sentivo come il giovane caporale Rusty, quello delle avventure di Rintintin, che scendeva veloce dal letto, metteva berretto e stivali e correva nel cortile della caserma, pronto agli ordini nel saluto militare, in fila con gli altri soldati e con il suo bel cane.

Non potevo indugiare nel letto e girarmi dall’altra parte, la stanza era già inondata di luce e il caffellatte profumava di buono; allora mi sedevo sul letto, prendevo in mano la mia tazza bollente e sorseggiavo il caffellatte con quella dolce schiuma dell’uovo sbattuto che si attaccava alle labbra e mi faceva i baffi.

Alla mamma, già sveglia da un pezzo, non doveva sembrare un brutto modo di fare: datti una mossa, voleva dire, è ora di mettersi in piedi e fare il proprio dovere.
Rintintin lo guardava divertita anche lei alla TV, e cercava di tirarmi su vigile e attenta come il piccolo Rusty! Datti una mossa, alzati in fretta e vai a scuola.
La galèna grisa si alzava, si preparava, prendeva la cartella, salutava e faceva i gradini a due a due. Stai attenta e fai la brava, stai composta! erano le ultime parole che sentivo lungo le scale.

Anche da grande, in altre occasioni, quando la mamma voleva invitarmi a cambiare registro o a mettermi in ordine, spuntava sempre fuori la galèna. Se mi vedeva perder tempo, cincischiare in casa, arrivava con la sua spinta e mi riportava al sodo.
In questo modo: “sò, sò, galèna grisa, dat ‘na mosa, ta né gnént da fè?
Se una mia telefonata si prolungava per più di un minuto, eccola arrivare in corridoio, dove io chiacchieravo al telefono con un’amica seduta sulla panchina, fare il segno delle forbici con le dita e dire, neppure sottovoce: “sò, sò, e gósta, sa crìdet?” Era capace anche di chiudere bruscamente la chiamata agendo con stizza sull’interruttore del telefono.
In casa sua si viveva così: bando alle ciance, qui non si sta con le mani in mano, o si studia o si lavora o si dorme. Anche davanti alla TV lei sgranava piselli, fagioli e stirava, cuciva, puliva scarpe. Per chi, come lei, non aveva avuto la vita garantita, ogni giorno era vissuto come una lotta per arrivare a sera e un impegno a non mollare mai.

Ecco perché io, fin da bambina, cercavo di trascorrere gran parte delle giornate fuori casa, all’aria aperta, lontano dal suo sguardo indagatore.
Devo riconoscere che il mio momento dei giochi non era messo in discussione, “i bambini devono stare con gli altri bambini e giocare” diceva spesso mia mamma, ma in casa, nel suo regno, vigeva una sorta di invito-dovere al lavoro.
La domenica mattina dovevo aiutarla a chiudere i tortelli, a fare i garganelli o gli strichetti. Quando stirava lasciava per me i fazzoletti, le federe, le cose più semplici. Mi invitava – obbligava a pulire le scarpe della festa di tutta la famiglia. Io inventavo mille scuse, lei si spazientiva.

Da adolescente, poi, passavo il pomeriggio fuori casa con gli amici, ritornavo appena in tempo per la cena e studiavo solo più tardi, quando lei ormai dormiva in salotto, sprofondata nel divano, sfinita dal suo lavoro quotidiano, ma il senso del dovere me lo ha inculcato: se prendo un impegno lo mantengo, sono affidabile e onesta; eppure “un trauma” devo averlo per forza interiorizzato o, almeno, un modo di fare un po’ nevrotico perché non so stare senza far niente. La galèna mi perseguita.

Ora che ho gli anni di mia mamma, gli anni in cui la ricordo bene, guardo mia figlia che ha fatto del “cazzeggio” il suo passatempo preferito, che passa ore al telefono, tanto c’è la tariffa unica, la notte chatta e risponde alle mail, sta ore sulla porta per salutare un’amica, non decide mai nulla senza ponderare e aspettare, la guardo e penso: se mia mamma fosse qui andrebbe giù di testa, non si rassegnerebbe nel vedere quanto tempo i giovani sprecano, dal suo punto di vista sarebbe uno strano modo di vivere.
Andrebbe in “sclero”, dice mia figlia. I ragazzi oggi hanno fatto del “mò vedo…”  la loro filosofia e, rimandando le decisioni, stanno a vedere cosa può succedere fino all’ultimo momento.

Ma anche noi adulti, però, oggi tendiamo a uniformarci a questo modo di agire. Ci sono giorni in cui anche a me sembra difficile sapere cosa voglio fare, dove voglio andare. Forse sono tante le cose a cui voglio badare, troppe da tenere sotto controllo.

Cosa fai oggi? mi chiedeva la mamma, la mattina quando mettevo piede in cucina.
Avevo appena compiuto diciotto anni. La guardavo, prima in silenzio, poi rispondevo: secondo te? Faccio quello che devo fare, vado a scuola, porto a casa buoni voti, spero basti almeno fino alla maturità. E dopo? Dopo quando, dopo l’esame? Non lo so ancora…

Forse quel giorno avevo l’aria un po’ triste, la mamma aveva paura della malinconia, il tipo malinconico la metteva in agitazione e se mi vedeva in quello stato non sapeva come prendermi.
Allora aprì i polmoni e mise in musica la sua sveglia: “Sò, sò, galèna grisa, arvólta la mènga, arvérsa la camisa!
Mi strappò un sorriso, lo devo riconoscere, ce la faceva quasi sempre. “Prima o poi mi racconterai la storia della gallina grigia, perché cosa deve fare ‘sta gallina io non l’ho mica capito e me lo dovrai pur dire. Adesso non ho tempo, ma verrà il giorno… ok?”
Un po’ giocavo, la prendevo in giro, lei, che era una donna che prendeva maledettamente tutto sul serio…

Passarono anni, non tanti a dire il vero. Un giorno, mentre ero in casa con mia madre ammalata, per passare un po’ di tempo senza pensare a nulla, aprii lentamente l’ultimo cassetto del comò e cominciai a rovistare fra le sue cose: aveva lasciato in una scatola la maglia da pelle e le mutande di mussola di cotone, la camicia da notte di pizzo per quando sarebbe dovuta andare in ospedale.

Quella camicia era risultata troppo elegante, quando c’era davvero dovuta andare in ospedale, e  tutto era ancora nuovo e avvolto nella carta velina. Sotto la carta c’era un logoro portafoglio con alcune sue foto tessera appartenute a vecchie carte di identità, tenute da conto perché scandivano il tempo, una ogni cinque anni, fino ai suoi sessanta.

Mi sedetti sul letto vicino a lei e guardai le  piccole foto, commentando le sue pettinature: “che taglio sbarazzino, quanti anni avevi in questa foto, mamma?” le chiesi.
La mamma era confusa, assente, la malattia non le dava tregua, mi guardò con quegli occhi profondi, di un blu intenso, con un’aria sconsolata. “La mi babina, a ne sò…
Io continuai a parlarle: “Una trentina d’anni al massimo, eri magra allora, chissà cosa ti passava per la testa a quell’età!”
Piegò la testa da un lato: “trent’en… a ne so, ma ades… an me cardéva che murì e fos acsè una fadìga…” Le sue parole mi agghiacciarono.

“Non dir così mamma, domani starai meglio…” Ma speranze non ce n’erano. “Parliamo d’altro, dai, mamma su, su dai, non posso vederti così, su…”
Sentii una voce che mi arrivava da dietro, da lontano: “sò, sò galena grisa… ti ricordi, mi dicevi sempre così: sò, sò…” E recitai la sua entrata in camera, l’alzata della tapparella e le sue esortazioni.
Sorrise. Che bello era vederla sorridere. Il suo volto era gonfio per il cortisone e il sorriso sembrava ridarle un’aria serena. “Cosa voleva dire? Che storia è? Sai che non me l’hai mai detto?”

In quel momento mi sembrava importante che lei me la raccontasse quella storia, quella storia che apparteneva a noi due e mentre lei pensava, tutto attorno, le sue cose della camera, le foto sul comò, l’appendiabiti con la vestaglia, le medicine e il fazzoletto ben piegato sul comodino, la carta da parati dietro il letto, si erano come sbiadite, allontanate.
Tutto era come sospeso ai miei occhi e la sua voce mi parve diversa, nuova, una voce solo mia, per me: “Sei sempre stata curiosa e lo sei ancora. È una storia così, per modo di dire, niente di importante”.

“Raccontamela lo stesso, non ci sono storie importanti e storie meno importanti, ma solo storie infinite…” Le presi la mano.

“Storie infinite, dici…” Con un sospiro cominciò: “Quando ero piccola io, tutte le bambine andavano a imparare a cucire da una sarta. I primi tempi dovevi solo passare spillini, spazzare a terra e tirare fili di imbastitura. Spesso la maestra era esigente e severa con noi bambine, ti faceva capire bene che era lei a farti un piacere, a passarti il mestiere, non eri tu che lavorando l’aiutavi a finire prima.Solamente dopo anni ti insegnava la messa in prova sul manichino e quando la cliente veniva in sartoria dovevi stare in disparte con gli occhi bassi.
Poi per darti un po’ di fiducia, la maestra ti faceva provare l’abito sulla cliente, per capire se cadeva bene e, se c’erano difetti, come correggerli. Era la cosa più difficile.
Quasi tutti vedono se un abito non cade a pennello, ma non sempre si riesce a sistemare un difetto, se è nel taglio. ‘Non preoccuparti’ mi diceva la maestra sottovoce, ‘e fèr l’è e rufiè de sért…‘, sistemeremo tutto con il ferro da stiro, che è il ruffiano del sarto.
Un giorno in sartoria c’era una bella e ricca cliente, la maestra ci teneva molto a lei perché le consegnava stoffe pregiate, le chiedeva lavori complessi e pagava bene.
Dovevo mettere in prova una bella camicia di seta color panna, col collo ricamato. Infilai timorosa la manica nel braccio della cliente, attenta a non sfiorarla, e con gli spilli stavo attaccando la manica alla spalla. La maestra, guardandomi e battendo le mani, mi disse: ‘sò sò galèna grisa, arvòlta la mènga, arvérsa la camìsa’.
Anche se non avevo mai sentito quelle parole, capii. Avevo messo la manica al contrario, la stoffa non era dal lato giusto. Non voleva che la cliente si accorgesse che ero poco esperta: ‘piccola, rivolta la manica, rovescia la camicia!’
Fallo, non vedi che stai pasticciando? Subito tolsi la manica e la infilai diritta.
Mi piacque quel modo di fare, la maestra non mi aveva fatto fare una brutta figura davanti alla cliente, perché a nessuno piace essere ripreso davanti agli altri.
E così da quel giorno mi chiamò galèna grisa e batteva le mani, tre colpi secchi, toc, toc, toc, ogni volta che voleva facessi qualcosa alla svelta. Ecco qua. Questa è la storia. Adesso, per piacere, dammi un sorso d’acqua”.
Le allungai il bicchiere e tirai giù la tapparella per farla riposare. Da quel giorno, quasi non parlò più.

Sarà nostalgia, ma oggi al mio cellulare ho messo una sveglia personalizzata: quando accendo il telefono nel display appare quel messaggio: “sò sò galèna grisa” e mi strappa un sorriso.

(Roberta Giacometti)