Andrea Pagani

Ecco il quarto numero della rubrica letteraria, curata da Andrea Pagani, “Profili”. Si tratta di una rubrica mensile, che esce l’ultima domenica di ogni mese, in cui si propone il profilo di un grande artista della letteratura, della pittura, del fumetto, del cinema, della storia. Un appuntamento imperdibile. Questo mese ci occupiamo di Virginia Woolf. Buona lettura

 

Di quando era bambina, Virginia Woolf ricorda la sensazione di trovarsi protetta, raccolta dentro un acino d’uva: le pareva di vedere le cose che accadevano al di là di un velo giallo semitrasparente, una sorta di membrana che la separava in parte (ma non del tutto) dal mondo e creava una specie di estraneità, di visione emarginata, un conduttore sensibile di visioni, suoni, contatti che le dava l’esperienza simultanea di distanza e protezione. Dentro quell’acino d’uva – spiegava Virginia – toccava l’umido della polpa e allo stesso tempo la pellicola la proteggeva.

Virginia Wolf (foto di George C. Beresford – Filippo Venturi Photography Blog, Pubblico dominio, da Wikipedia)

È la stessa sensazione che, in un passaggio del 1939 dei Momenti dell’essere, intitolato Uno schizzo del passato, Virginia Woolf confessa di provare paragonandosi ad un bambino: «Mi sentivo – scrive – come uno zingaro, o un bambino che, dal lembo alzato del tendone, guarda il circo». Un’immagine magnifica, seppur amara e struggente, come le tante che ci ha consegnato la geniale poesia della Woolf, capace di raffigurare in un disegno plastico e sensibile una condizione dell’esistenza, uno stato d’animo, appunto un momento dell’essere.

Un’immagine emblematica: «uno zingaro o un bambino che dal lembo alzato del tendone guarda il circo».

È un’immagine di forte carica evocativa, d’intenso valore simbolico, che tratteggia in modo esemplare la condizione di estraneità e di diversità che viveva Virginia Woolf.

Un senso di inappartenenza anzitutto nei confronti della «mondanità vittoriana in azione […], dei parenti maschi, quando si esibivano nelle differenti mosse del gioco intellettuale […], stampato e modellato dalla grande macchina patriarcale». Ma è anche, più in generale, un senso di inappartenenza esistenziale verso il mondo, nella sua complessività: un senso di inadeguatezza e di impotenza nella «coscienza della propria diversità […], in quanto è donna, in quanto è “pazza”» (Nadia Fusini).

È la stessa sensazione di quell’altro altro icastico passaggio, in cui racconta di stare dentro un acino d’uva, da cui vedeva le cose che accadevano al di là di un velo giallo.

Eppure stare dentro a quell’acino d’uva consisteva, allo stesso tempo, in una situazione di protezione: «dentro l’acino toccava l’umido della polpa, la bagnava il succo, mentre la pellicola dell’acino la proteggeva» (Nadia Fusini). Come dire: riusciva a penetrare l’essenza delle cose, proteggendosi dal “circo” del mondo esterno.

Qui sta il senso di quel tormento, di quella malattia, di quella forza silenziosa che la abita, la perseguita, e che ritorna con le sue presenze inquietanti. Ma anche quel senso di specialità, di privilegio, di singolarità che le consente di osservare la vita da un punto di vista distaccato e superiore, assoluto e perspicace, e che distingue alla fine il tratto del suo genio.

A ben vedere tutte le grandi protagoniste dei romanzi di Virginia Woolf vivono questa condizione di outsider, quel senso di inadeguatezza e inappartenenza, di estraneità ed esclusione, che tuttavia è la misura perfetta per osservare il mondo con profondità, scoprendone le contraddizioni, le ambiguità, i segreti.

La giornata londinese di Clarissa Dalloway (protagonista dell’omonimo romanzo), in un mercoledì di giugno del 1923, consiste in un penetrante continuo monologo interiore, capace di captare nelle situazioni circostanti (oggetti, persone, fatti) il cosiddetto moment of being, un momento dell’essere, una verità sepolta, una condizione esistenziale, un ricordo disperso nei meandri dell’inconscio: ad esempio, il movimento ondeggiante di una foglia in uno dei tanti parchi londinesi smuove in Clarissa la passione per la danza o le lunghe cavalcate a Bourton; così come l’incontro mattutino con Hugh Withbread porta a bussare alla mente di Clarissa diversi ricordi riguardanti la sua giovinezza come quello della figura di Peter Walsh. E via di seguito, in un perenne flusso di memorie, suggestioni, impressioni, capace di ricostruire il movimento ondivago dei pensieri.

È ciò che avviene anche nell’altro capolavoro della Woolf, To the Lighthouse (Al faro) del 1927, dove la famiglia Ramsay, in vacanza sull’Isola di Skye, nelle Isole Ebridi, sta aspettando che le condizioni metereologiche consentano una gita al faro (che si farà solo 10 anni dopo), ma dove in realtà a livello di fatti concreti non capita nulla perché il vero movimento è quello interiore, verticale, in profondità, nei pensieri dei personaggi, in uno scarto stridente e disarmonico fra moglie e marito, fra ciò che dicono e ciò che pensano.

Insomma, storie che si costruiscono su un altrove, sulla musica dell’interiorità, su un costante dissonante movimento parallelo: da un lato le minute occasioni del quotidiano, irrilevanti e anonime; dall’altro il «guazzabuglio del cuore», il flusso dei pensieri, il gorgoglio scalpitante delle percezioni vissute da un outsider.

Teniamo a mente quest’immagine, perché è il tratto comune che apparenta, pur nella loro smisurata diversità, le altre grande personalità del modernismo, che incrociarono le loro esperienze all’inizio del Novecento: James Joyce, Marcel Proust e appunto Virginia Woolf. Sono tre giganti, tre cime, che in quanto tali non riescono a toccarsi, ognuna immersa nella propria titanica grandezza.

Distanti per scelte stilistiche, tematiche, suggestioni, argomenti, impianti strutturali. Eppure in una cosa converge la loro sensibilità, il loro demone e la loro via di scampo: in quel sentirsi «zingari», forestieri dal «circo del mondo», che percepiscono e osservano come un bambino, di nascosto, dal lembo alzato del tendone.

(Andrea Pagani)

Virginia Wolf (foto di George C. Beresford – Filippo Venturi Photography Blog, Pubblico dominio, da Wikipedia)