Imola. Continua il nostro lavoro di approfondimento sulle figure degli Esperti tra pari o Esperti per esperienza (Esp) all’interno delle strutture sanitarie. Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista a due voci con Claudia Corsolini, coordinatrice del programma “Vita Indipendente”, e Angelo Dall’Ara, Esp.
E’ possibile quantificare i risultati della vostra esperienza?
A. “Sono difficilmente quantificabili, almeno nel breve periodo, mentre potrebbe essere interessante ragionare sul medio e lungo periodo, anche se i dati a disposizione non sono ancora molti.
Noi abbiamo a che fare con persone generalmente al primo ricovero, quindi con una situazione tutta da elaborare. Si parla di uomini e donne che da un momento all’altro vengono catapultati in una situazione estremamente diversa da quella del giorno prima, ed è possibile che il lavoro che facciamo oggi magari possa dare dei risultati a distanza.
Se pensiamo quindi ad un esito misurabile a breve rischieremmo di lasciar perdere.
Il nostro lavoro è di difficile quantificazione, entriamo dentro l’animo delle persone, ed ognuno reagisce con tempi e modi diversi. C’è chi, ad esempio, all’inizio rifiuti qualsiasi rapporto, poi magari dopo due mesi ti cerca. Oppure lo fa dopo un certo tempo che è già ritornato a casa sua”.
Quali sono i primi passi quando vi avvicinate ad un paziente?
A. “La cosa che facciamo subito è quella di dare a tutti dei riferimenti certi, e ognuno poi nella sua libertà ci può cercare quando vuole. Teniamo conto che a Montecatone arrivano persone che per oltre il 60% provengono da regioni diverse, e soprattutto al sud la situazione non è l’ideale, per questo cerchiamo laddove possibile di dare dei riferimenti possibilmente sul posto o comunque vicino al luogo dove risiede la persona, coinvolgendo le varie associazioni che appartengono alla nostra federazione, oppure riferimenti di qualcuno che ha fatto un pezzo di strada assieme a noi. Il rischio altrimenti è che escano di qua e si trovino in un deserto. Anche se non è semplice, perché noi non siamo tantissimi e spesso doverci muovere può risultare un problema”.
Quando scatta la voglia di poter essere a disposizione?
A. “A volte anche subito all’inizio, perché hai visto qualcuno farlo e ti piacerebbe. Ma la fretta non fa mai bene. Bisogna lasciare passare il tempo, è inevitabile. Almeno un paio di anni dal momento in cui hai subito la lesione. La verità è che ognuno ha il proprio momento. E non c’è un tempo, perché poi ti capita qualcosa nella vita che ti può creare ostacoli: il lavoro, la famiglia, il fatto di abitare a chilometri di distanza.
Ma se sei convinto, e noi capiamo che quella persona può essere veramente d’aiuto a qualcun altro, allora si possono usare gli strumenti della tecnologia: il telefono, le videochiamate. Poi se c’è una situazione particolare e sappiamo che quella persona lì ha quell’esperienza, in qualche modo riusciamo a creare il contatto anche fisico.
In generale alcuni di noi possono essere presenti più spesso, altri per i più svariati motivi non possono essere disponibili ogni giorno della settimana”.
E quando qualcuno entra a far parte del gruppo?
A. “E’ una soddisfazione perché ti rendi conto di averlo stimolato ad essere utile per gli altri. In pratica chi oggi fa parte del nostro gruppo è un qualcuno che abbiamo agganciato in struttura, poi spesso trascorre un po’ di tempo prima di maturare la decisione di buttarsi in una relazione d’aiuto di questo tipo.
Quando arrivano le prime domande su cosa sia possibile fare e come ci si può muovere in una relazione d’aiuto alla pari, allora parte anche il lavoro di formazione”.
Ma ci sarà una valutazione sulla possibilità di svolgere quel ruolo?
A. “Quando ci arriva una richiesta innanzitutto sta in noi comprendere se quella persona, per sua indole, carattere e tanti altri fattori che entrano in gioco, possa dare qualcosa a qualcun altro. E’ difficile da spiegare, non è una questione di essere bravi, ma in un certo senso devi avere dentro, nel sangue, la disponibilità di avviare una relazione d’aiuto.
Il punto di partenza è che non devi essere incazzato con la vita. Perché se lo sei, cosa possono vedere gli altri in te? Quindi è fondamentale il percorso che hai fatto su te stesso, devi trasmettere l’immagine di una persona, para o tetra che sia, che sta su una carrozzina affrontando la vita in maniera positiva”.
Hai un esempio?
A. “Posso raccontare la mia esperienza. Quando ero ricoverato, veniva nella mia camera un ragazzo in carrozzina. Io avevo due reazioni opposte. La più semplice: ‘Cosa vuole dimostrare questo sfigato qui’, era la fase nella quale non accettavo la mia condizione, figurati se avevo voglia di vedere o parlare con lui. Poi un po’ alla volta ti sorgeva un pensiero: ‘Chissà se magari un giorno potrò fare quello che fa lui’. E’ a questo punto che entra in gioco la funzione specchio”.
Cioè?
A. “Questo atteggiamento è normale, in quel momento che sei steso su un letto ed usi una carrozzina che non è ancora la tua, non riesci a capire l’aiuto che ti può dare questa persona che hai di fronte. Sei lì che pensi a cosa sarà la tua vita in quelle condizioni, cosa sarà il futuro con tua moglie, i tuoi figli, il lavoro.
Improvvisamente tutto questo come l’hai vissuto fino al giorno prima non c’è più, tutto è nuovo ed orribile perché nessuno vuole stare in questa condizione. I tuoi organi, il tuo sentire e percepire, il dolore, la sessualità e tutto il tuo stato psicologico: non riesci più a riconoscere te stesso.
E allora cosa succede? Ma se accetti di vedere qualcun altro, di chiedergli la sua storia, il tipo di lesione che ha e da quanto tempo vive così, allora ti può venire la voglia di metterti in gioco, magari non subito, magari domani. Puoi percepire che hai più di una possibilità, che non sei finito.
E’ questa la molla che deve scattare. E un po’ alla volta ti accorgi che il rapporto con l’altro ti può essere utile, semmai anche solo per avere informazioni che ti impediscono di spendere soldi in ausili che non servono. Anche a me è capitato di fare spese inutili, quindi anche lì relazionarsi con delle persone che hanno già vissuto questa esperienza può essere di grande aiuto”.
Non è certo un ruolo semplice…
A. “Anzi, è una relazione complessa, bisogna sempre stare un passo indietro, il protagonista è quella persona che è stesa nel letto o che si trascina con una carrozzina con lo sguardo nel vuoto: di fronte a qualcuno in difficoltà il rischio è di fare un po’ il fenomeno, ma questo non serve, a volte bisogna sapere anche stare zitti e riuscire a fare parlare gli altri, una grande dote è il saper ascoltare.
Aiutare la persona a venir fuori e a prendere coscienza di sé, poi rispondi alle domande che ti fa, e lo fai in base alla tua esperienza, con la consapevolezza che è solo tua e non è detto che sia anche la sua, ognuno è diverso e si porta dietro il suo vissuto, i luoghi dove vive e dove lavora”.
Tra i problemi che vi pongono c’è qualcosa che prevale?
A. “Certamente uno dei problemi che appare più spesso è il rapporto con l’altro sesso. Occorre rendersi conto che non c’è un solo modo di amare e volere bene e soprattutto non c’è nel modo in cui l’hai vissuto fino a ieri, ma il vivere i sentimenti ha tante sfaccettature.
E’ chiaro che non voglio nascondere le difficoltà, che sono tante a cominciare da quelle che hanno a che fare con la tua vita di relazioni umane. Quindi per svolgere questa attività è fondamentale essere capace di ascoltare, perchè ciò che racconti a una persona in carrozzina saranno le tue verità, ma non le sue e in una situazione in cui si vive un grande disagio può essere anche irritante”.
In pratica come siete organizzati per garantire il servizio che vi si richiede?
C. “Possiamo dire di avere costruito un team formato dai due gruppi già ricordati (l’associazione di cui fa parte Angelo e la Fondazione Montecatone), che nel tempo hanno avvicinato persone disponibili ad essere presenti in Ospedale con una certa regolarità; poi c’è un gruppo più allargato che può intervenire a chiamata, fino ad avere persone che sono tornate a casa fuori regione e quindi è difficile possano essere presenti a Montecatone, ma sappiamo essere portatori di esperienza utile per la fase post dimissione, oppure in casi particolari, anche a distanza. Una sorta di rete fatta di persone raccolte dalle associazioni dove sono presenti”.
Quali sono i rischi nei quali possono incorrere gli Esp?
C. “In alcuni casi è accaduto a persone, che magari erano tanti anni che avevano vissuto il trauma, di andare in difficoltà, perché si è “riaperta la ferita”: non è frequente però può capitare.
Qualcuno ha detto basta perché era talmente empatico che non riusciva ad essere neutrale, e si faceva prendere dall’emozione ascoltando il racconto del paziente: alcune persone erano bravissime ad ascoltare, ma poi arrivavano a casa e non dormivano più, allora abbiamo dovuto far capire che rischiavano di fare dei danni anche a sé stesse, e qui sorge un’altra grande difficoltà: quella di dire no in maniera costruttiva a chi avrebbe voglia di fare.
Oppure ci sono casi in cui la tua esperienza ‘di successo’ è anche condizionata da variabili che non puoi trasmettere all’altro. Che ne so… una dote particolare, oppure anche la disponibilità economica, casi in cui non puoi considerarti alla pari.
Mentre invece il livello culturale non è un problema, abbiamo visto delle persone con un livello culturale più basso di altre che sono bravissime nel supporto alla pari, perché hanno quella dote innata di sapersi rapportare con le persone in qualsiasi situazione”.
A. “Bisogna anche rispettare il tipo di lesione. Io personalmente posso avere un certo tipo di approccio con una persona paraplegica, ma se mi trovo di fronte a un tetraplegico posso essere di aiuto solo in certi termini. Serve qualcuno che abbia vissuto e stia vivendo quell’esperienza.
Ci sono diverse tipologie di problematiche e ognuna è diversa dall’altra, ad esempio se trovi qualcuno che può camminare, ma non ha l’uso delle mani, una roba così strana che ti fa arrabbiare, allora devi mettere in campo una persona che vive con questo tipo di lesione.
Nel nostro caso, ad esempio, si tratta di una persona che ha fatto un bel percorso è tornato a fare il dirigente d’azienda, e quindi può trasmettere l’idea che non tutto è perso. Poi sul concetto di pari bisogna stare molto attenti, perchè a volte pari proprio non si è, per cultura, per posizione lavorativa, per situazione economica, ecc.
Altro aspetto importante è il sesso. Se hai di fronte una donna che vuole avere una maternità, le devi affiancare qualcuna che ha vissuto quella situazione e che è riuscita ad avere un figlio. Quindi un ventaglio di situazioni che rendono complessa la nostra operatività”. (Continua)
(Valerio Zanotti)