Era nelle previsioni. Caldo, caldo e ancora caldo. Chissà che non serva a convertire quelle povere menti dei negazionisti. Ma no, ci vuole ben altro e … ce ne sarà ancora. D’altra parte fa parte della natura umana: negare e ancora negare, verso l’incubo squisitamente personale di dover, un giorno, ammettere di aver sbagliato.

E poi fa caldo. Boia d’un mondo! Domani mattina dal medico vado senza un soldo in tasca? E se quello fa parte della razza senza scontrino fiscale? E io tiro fuori il bancomat: sai le risate che ci facciamo. Anzi quelle che si fa lui! Come faccio? Quasi quasi faccio un salto in centro, mi regalo una bella coppa di gelato e finisco al bancomat. Ma si, che ci vuole.

Sembra che anche le luci accese siano diminuite: in lontananza le luci della città. Maglietta più leggera e sottile di tutto il mio guardaroba e sono pronto. Appena esco dalla porta esterna il calore della notte mi assale: ma qualcuno ha telefonato alla luna che di notte dovrebbe far fresco? Non ci si può fidare più neppure delle buone, care e vecchie tradizioni.

Cinque passi e tocco la carrozzeria dell’auto: scotta! E scotta ancora che sono le dieci passate: io non ci entro. Apro lo sportello e una vampata di aria quasi rovente mi assale: meglio aprire tutti gli sportelli e attendere qualche attimo, ma non credo risolverà molto dato che fuori fa quasi caldo come dentro.

Chiuse le portiere, cintura, telecomando apri-cancello azionato, luci, retromarcia e via all’aria condizionata a forza cinque!

E’ come un mistero il silenzio della notte nelle strade di campagna: il lieve ronzio del motore e il rollare delle ruote sembra non disturbarlo. Procedo lentamente cercando di assorbire questo silenzio, di farlo mio, di confondermi con lui e tanto mi confondo che quasi finisco nel fosso…

Anche nelle vie della periferia il traffico è assente. E’ domenica notte e sono le dieci appena passate, chi è rientrato dalle ferie è afflitto dal lavoro incombente e da una nostalgia di fine ferie che attanaglia. Chi è rimasto in città se ne guarda bene dall’uscire: solo un pazzo può girare per le strade buie della periferia a quest’ora. Già, solo un pazzo.

Il parcheggio di via Aspromonte mi offre riparo e ampi spazi disponibili: parcheggio nei pressi della rampa che conduce all’uscita sul marciapiede di quella che una volta era la circonvallazione, quando la mia città era molto più piccola, ancora quasi totalmente rinchiusa nell’antico tracciato delle mura medievali. Ora non più. Il semaforo all’incrocio con la via Appia lampeggia di un giallo stanco e appassito: verso la stazione nulla, verso il vecchio macello ora abbandonato ancora meno, verso il centro qualche sagoma sembra barcollare nell’incrocio con la via Cavour: un fresco gelato notturno affascina quasi tutti. Mancano i bambini: a quest’ora a letto.

Esco dalla gelateria con una coppa di dimensioni generose e solo ora mi rendo conto che dal centro proviene uno scomposto rullare di tamburi. Ma che dico rullare: uno scomposto batti an’do cojo cojo in assenza di ritmo o di qualsivoglia sequenza ritmica: ci sarà qualche festa notturna.
Tuttavia non vedo nessuno fermo ad ascoltare e non mi proviene altro rumore se non quello scomposto percuotere. Quando supero l’angolo e mi si scopre la piazzetta distinguo quattro giovani, due coppie, sedute ad un tavolo senza nulla sopra e, rinchiusi dentro a quella che sembra una “baracchina” per la distribuzione e vendita di arachidi, lupini e semi di zucca, due esseri che si dimenano in forme convulse: il rumore del tamburo è devastante e le mosse dei sue mi ricordano molto da vicino i primati del famoso film di Kublick quando si agitano per l’arrivo incombente dei rivali…

Attorno, tutto attorno il deserto. Ora sono esattamente sotto quello che una volta era il semaforo del centro che alternava il traffico delle auto lungo il tracciato dei cardini di romana memoria e posso distinguere l’assoluta assenza di presenza umana: unicamente i due primati continuano a dimenarsi a contorcersi al ritmo (ecco, ritmo non è la terminologia corretta, ma in questo momento non me ne viene una migliore …) di quelle assurde percussioni. Mi scopro a sorridere pensando ai cittadini che staranno cercando di prendere sonno nelle vicinanze, nelle stanze surriscaldate dalle antiche pietre e con questo accompagnamento.

Mi incammino verso lo splendido fabbricato e colonnato che racchiude la nostra bellissima farmacia. Mi soffermo a guardarla nel silenzio (si fa per dire) poi giro verso i giardini pubblici dirigendomi verso il parcheggio.
Ad un tratto, quasi irreale, sbuca davanti a me una giovane ragazza e mi anticipa nella stessa direzione: non ho notato se è uscita da un portone o se era seduta da qualche parte, ma ora mi cammina pochi metri avanti.

Non risulta facile descrivere come è vestita, forse più semplice tentare nell’affermare come è svestita: una strettissima maglietta che deve appartenere alla sorella minore, molto minore e un paio di pantaloncini cortissimi di almeno due misure meno della sua taglia.
Un paio di, mi sembra di vedere, sandaletti minimali ed è tutto. Un sacco bianco è sorretto dalla sua mano sinistra, tipo quei sacchi di cotone bianco che si acquistavano alla cassa della Coop con poche lire quando dimenticavi la sporta a casa: quasi striscia sull’asfalto.

Tiene la testa curva in avanti leggermente reclinata verso sinistra, quasi a pensare. Cosa ti è successo giovane ragazza? Perché te ne vai sola con il capo chino a quest’ora di notte. Qualcuno ti ha detto di no? Possibile? Qualcuno non è venuto all’appuntamento o, peggio che peggio, si è presentato con un’altra? Quella smorfiosa!
E ha parlato e riso solo con lei non degnandoti neppure di uno sguardo. Sono certo che meriteresti di meglio. Ecco, per esempio…
Ad un tratto si gira: deve aver udito i mie passi dietro di lei. Una rapida occhiata, si rigira e prosegue il suo cammino. Non sono riuscito, neppure per un attimo, a suscitare il ben minimo interesse nella sua attenzione. Deve avermi giudicato inoffensivo. O inutile. Solo un’ingombrate presenza. Discreta e solo un po’ fastidiosa.

Lei gira a destra prima di raggiungere la chiesa di Valverde (io l’ho sempre chiamata così), io a sinistra verso il parcheggio di via Aspromonte. Mentre attraverso il piccolo rettangolo di verde subito dopo la chiesa posso udire il parlare concitato di un nero che sembra sbraitare al sua cellulare.

Naturalmente non riesco a comprendere alcuna parola ma sembra molto inquieto. E le risposte sembrano infastidirlo sempre di più.
Parole che sembrano venire da un altro mondo, un mondo che non conosco, che mi è lontano e che forse dovrei cercare di capire meglio. Già, capire, comprendere, ascoltare.
Molto più facile e immediato ricordare l’immagine di quei minimi pantaloncini che ondeggiavano a destra e sinistra. Già, molto più facile. Chi si accontenta… gode.

Ma ecco l’auto, ancora calda la carrozzeria. Porca vacca! A causa di quello sconclusionato rullio di tamburi ho dimenticato di prelevare contante. Beh, se domani il medico non mi presenta una regolare ricevuta e mi presenta il piccolo terminale per i pagamenti me la do a gambe e l’inchiodo!

Cosa c’è? Sei infastidito dal fatto che la ragazzina non ti abbia neppure considerato? O è la rabbia per non aver compreso neppure una parola del nero? La prima, vero?

Dai, metti in moto, vedi se il condizionatore dell’auto funziona ancora e cerca di imboccare la strada giusta, che si è fatto tardi!

(Mauro Magnani)