Imola. Si conclude con questo pezzo l’intervista a due voci con Claudia Corsolini, coordinatrice del programma “Vita Indipendente”, e Angelo Dall’Ara, Esp, sulle figure degli Esperti tra pari o Esperti per esperienza all’interno delle strutture sanitarie.
C’è un qualche dote particolare che può aiutare nel ruolo di Esp?
A. “Quello che spesso è vincente è la credibilità che puoi mettere in campo e che nasce dall’esperienza, perché la persona che sta dall’altra parte farà un sacco di domande e se quell’esperienza non l’hai vissuta è impossibile raccontargliela. Spesso non serve essere bravissimi, avere cultura, saper parlare, è solo quell’esperienza diretta che abbiamo vissuto che ci può aiutare a scardinare delle porte che sono chiuse, in questo caso essere laureati o avere la terza media non conta nulla, quello che fa la differenza è l’esperienza che hai vissuto”.
Come ci si avvicina alla persona che stanno su quel letto? Qual è il primo approccio?
C. “Ci sono diverse possibilità, non ne escludiamo nessuna. Si è deciso che quando l’équipe va a parlare con quel paziente e gli racconta cosa la struttura può fare per lui, tra le varie cose gli racconta anche dell’esperto per esperienza. Poi ci rendiamo conto che quando uno ti racconta dove sei finito, l’ultima cosa che ti ricordi è l’Esp.
Molto spesso il contatto avviene con un familiare che ti avvicina al bar e ti dice di averti visto o sentito parlare con un altro paziente e ti chiede se puoi fare la stessa cosa con suo figlio o sua figlia.
Oppure è lo stesso paziente che si accorge di questa figura che parla con il vicino di letto o con qualcuno di un’altra camera e quello che all’inizio lo avvertivi come un disturbo, un po’ alla volta fa breccia dentro di te e cominci a pensare: perchè non provare?”.
A. “Il primo approccio è molto importante, così come ti poni. Serve una estrema delicatezza. Quando l’input viene dagli operatori, siamo consapevoli che andiamo lì, davanti a una persona che non ci conosce, non ci ha mai visto.
In questo caso sono importanti le informazioni che hai raccolto, sapere il perché ci viene chiesto di avvicinare quella persona.
Quando arriviamo in una camera, semmai con due pazienti e siamo chiamati per uno di loro, osserviamo attentamente anche come reagisce l’altro: se è infastidito, se sta sulle sue e semmai si gira di lato, così quando ci torniamo la prossima volta dobbiamo comportarci in un altro modo e se prima o poi ci guarda e ci ascolta ce ne accorgiamo.
E allora una delle prossime volte proviamo a coinvolgerlo, semmai andandoci sapendo che la persona che avremmo dovuto incontrare è in palestra, così restiamo solo con lui”.
Qual è lo stato d’animo con il quale varchi quella soglia?
A. Quando entro in una stanza mi faccio il segno della croce perché so che entro nella vita dell’altra persona non come infermiere, non come un medico con i quali necessariamente ti devi rapportare, ma con una prospettiva completamente diversa e ti assicuro che a volte ti capita di non farcela per poi andarci il giorno dopo, ma anche in questo caso è una questione personale.
Non ho mai pensato però di essere visto come un intruso, perché sono consapevole della carica dirompente che può avere la mia presenza, indipendentemente dal fatto che porti a qualcosa in tempi brevi. Mi muovo con pudore, conscio di quello che faccio e anche dello stato d’animo della persona che ho di fronte. Però posso dirvi che quando chiedo se posso tornare nei giorni successivi sono stati pochi quelli che hanno detto di no”.
Le famiglie, come si pongono di fronte a un figlio che ha subito un trauma così grande?
A. “Anche in questo caso non c’è una regola, possono essere sia d’aiuto sia d’ostacolo. Se ti trovi di fronte ad un genitore che pensa che sarebbe stato meglio che il figlio fosse morto non c’è nulla da fare, anche se quel figlio ha voglia di reagire, rischiamo di essere disarmati di fronte a una situazione come questa.
Mi verrebbe da dire che è normale, su quel figlio hai costruiti dei progetti, ti sei fatto delle idee, poi se tutto ciò viene interrotto drammaticamente e spazzato via ti crolla il mondo che ti sei costruito.
E’ difficile capire che comunque quella roba lì era il tuo progetto e non quello di tuo figlio e che ora sarebbe importante ricostruire un percorso.
In questi casi emergono anche differenze nel comportamento nei confronti di un maschio o di una femmina, così come vi sono differenze nell’approccio delle mamme e dei papà. Non ci sono regole, ma di certo se ti comporti cercando di chiudere le porte, quel ragazzo o quella ragazza, che ora sono su un letto non voleranno mai, e, vi assicuro, si può volare anche in queste condizioni”.
Com’è il rapporto con gli operatori?
A. “Posso dire che ci sono stati momenti molto complessi, ora però prevale la percezione di un atteggiamento di accoglienza. Non vi sono colpe di qualcuno, probabilmente a volte è stato sbagliato il tipo di approccio e forse non era nemmeno chiara la nostra funzione. Adesso sinceramente vi è un ottimo rapporto.
Bisogna perseguire sempre di più un assetto co-operativo: abbiamo funzioni molto diverse ma l’obiettivo è assolutamente comune, è il benessere di quella persona, di quelle persone che ci sono affidare per un certo tempo, in una fase molto difficile della loro vita. Ci siamo anche resi conto che dentro all’unità spinale è fondamentale tenere sempre distinte la funzione di consulenza alla pari dalla tutela dei diritti”.
C. “Secondo me è un fluttuare di momenti positivi e meno positivi, adesso che è più chiaro cosa è possibile ottenere da questa figura, la strada è in discesa. E’ più complicato trovare un’alleanza con dei professionisti contigui.
Paradossalmente un medico continua a fare il suo lavoro e non gli cambia tanto avere a che fare con un Esp, mentre non è la stessa cosa per un educatore, uno psicologo, un terapista occupazionale, perché potenzialmente l’Esp si porta dietro delle competenze date dalle esperienze che potrebbero confliggere con la visione che ha un professionista. In questo ambito possiamo migliorare.
Confermo che adesso c’è un clima rilassato, abbiamo capito che in alcune circostanze non c’è professionalità che tenga. Quindi il substrato da cui si parte è quello di una certa fiducia reciproca, però è un attimo scollinare e cadere nel conflitto e mettere in discussione il ruolo reciproco.
Viviamo ancora in un equilibrio instabile: di certo ci siamo resi conto che su alcune cose non possiamo fare a meno di queste figure, della loro presenza in corsia, come non possiamo fare a meno di avere degli istruttori che sono ex pazienti quando si insegna ping pong, o si fanno laboratori di pittura.
Siamo consapevoli che quelle figure non stanno solo insegnando, ma stanno facendo altre mille cose senza dirlo. Quindi da questo punto di vista mi sento che abbiamo raggiunto un equilibrio, che però deve essere continuamente aggiornato perché basta un attimo”.
In effetti non deve essere facile tenere assieme il tutto…
C. “E’ difficile, tenendo anche conto che la struttura sanitaria di Montecatone funziona con delle regole molto tassative, invece la presenza degli Esp è tutto tranne che tassativa.
Pian piano ci stiamo rendendo conto che siamo noi operatori che li chiamiamo perchè capiamo che hanno quella capacità di farsi capire che nasce da un’esperienza simile, mentre tra l’operatore e chi è in un letto, che deve ancora metabolizzare quello che gli è successo, c’è troppa distanza, quindi siamo noi che chiediamo all’Esp di andare a parlare con quel paziente”.
Svolgere una funzione come questa non ci si inventa, certo bisogna essere predisposti, ma la formazione diventa fondamentale.
A. “E’ un tema sul quale ci stiamo confrontando continuamente. Siamo partiti con un momento formativo interno grazie anche ad una nostra socia che è psicologa, lavora, ha un figlio. E’ un po’ la figura di riferimento per quanto riguarda l’associazione, poi facciamo comunque anche un lavoro tra di noi in piccoli gruppi.
Non mancano anche momenti formativi con altre realtà che hanno competenze diverse da quelle che possiamo garantire noi.
Abbiamo anche lavorato nel 2017 ad un progetto di formazione nazionale, ma il grande problema è quello di muovere le persone e anche trovare le risorse per finanziarli.
Comunque le varie associazioni si stanno muovendo anche con degli scambi reciproci. Se vogliamo fare un confronto, posso dire che la salute mentale è un altro mondo, i centri sono molto più numerosi, le unità spinali non sono dappertutto. Recentemente abbiamo ripreso in mano il nostro programma che avevamo predisposto nel 2017 e abbiamo organizzato un percorso in forma ridotta, un corso itinerante tra Milano, Cagliari, Pescara e Imola pensato da noi e finanziato da persone che credono in queste cose”.
Visto che ora va molto di moda, fare corsi online?
A. “Avevamo anche pensato di fare della formazione online, ma abbiamo visto che è un’altra cosa rispetto a quella in presenza, nonostante la fatica a muoversi e a restare diversi giorni fuori dal tuo ambiente, cosa che se pensiamo a un tetra è amplificata.
Non si tratta solo di ‘imparare’ delle cose, delle nozioni. Stiamo pensando però ad alcune forme di formazione per gruppi, ad esempio se facciamo qualcosa a Imola, quelli della Sicilia o dell’Abruzzo si possono trovare in un posto assieme e collegarsi online con noi o viceversa. E le prime esperienze sono state positive, arricchite anche dal confronto che nasce tra i vari gruppi”.
Cosa hai capito di fondamentale in questi anni di attività?
A. Credo sia opportuno considerare che, se l’esperienza della consulenza alla pari non fa bene prima di tutto a chi la fa, non può portare nulla nemmeno a chi la riceve. Non si fa questa cosa perché non si ha niente da fare, o perché si ha bisogno di affermare sé stesso, o perché si vuole cercare un successo personale. Va poco d’accordo anche con il ‘volontarismo’. La relazione d’aiuto parte da dentro di te, non te la puoi inventare”.
(Valerio Zanotti)