Sono passato da quelle parti per puro caso: un recapito errato o un errore di trascrizione, fatto sta che mi sono trovato a fare un bel giro tondo. Via Digione, svolta in discesa per via Salute e quindi a sinistra, sul fondo, nuovamente in via Digione. E ora sono fermo qui. Una montagna di ricordi, ricordi di tanti anni fa, forse troppi gli anni, ma no di certo i ricordi. E come sono lucidi, autentici, quasi reali. Raramente, credo, le azioni che compiamo, importanti o insignificanti poco importa, lasciano dentro di noi un segno tanto indelebile.

I due fabbricati, sostanzialmente gemelli, con affaccio su via Digione erano tra di loro separati da una decina di metri, uno spazio destinato ad ospitare una fontanella o forse, non mi è dato di sapere o ricordare, un tubo lasciato al grezzo, ripiegato e nel terminare destinato ad ospitare un diffusore a doccia. Forse a metà del tubo era pure previsto un rubinetto, destinato a dissetare o comunque a fornire acqua.

Si, viene da sorridere, lo so, ma a quel tempo, cinque o sei anni dalla fine della seconda guerra mondiale, l’acqua, nelle case popolari, era ancora considerata, se non proprio un lusso, un bene raro e prezioso. Ricordo bene che non era raro, nelle sere d’estate, osservare nerboruti vicini di casa che, dopo aver piazzato una catinella, modello unico zincato antiruggine con due supporti ai bordi a mo’ di maniglie, sopra una sedia o sopra l’asse destinato a supporto per lavare i panni utilizzato dalle lavandaie provvedevano a lavarsi il busto in completa indifferenza di quanti lì abitavano o si trovavano a passare.

Comunque, nel ricordo che affiorava dentro di me, il tubo era stato divelto e ne restava un moncone appena affiorante dal cemento. Poco distante, nella zona centrale, una griglia era presente, destinata a raccogliere l’acqua residua o non utilizzata. Tutto intorno decisamente un abbandono e decise tracce di incuria: qualche traccia di un tentativo di “orto” finito miseramente, chissà se per stanchezza o nell’aver constatato che uno lavorava e “diversi” raccoglievano i frutti del lavoro …

Si penserà ad un abbandono, alla storia finale di pesante incuria, ma sarebbe un errore. Un grossolano errore. Per noi ragazzi (forse sarebbe più opportuno il termine bimbetti) quello che veniva abbandonato da tutti era destinato a divenire un tesoro, un luogo a disposizione della fantasia, della ricerca del gioco, dell’appropriarsi di qualcosa senza valore per i più, ma colmo di valore irrinunciabile nel gioco quotidiano.

Uso il termine gioco e non confondo il tutto con la parola giocattolo: i giocattoli, per noi delle case popolari, erano qualcosa di sconosciuto, oggetti di un mondo diverso dal quale eravamo esclusi e nel quale saremmo entrati solo parecchi anni dopo. A seconda dell’individuale fortuna, delle diverse vicende o, forse in qualche raro caso, del merito.

Ed ecco quindi che il luogo abbandonato divenne proprietà decisamente esclusiva di noi tre: Davide, il più grandicello, Roberto, il trainato, e il sottoscritto, nel ruolo di secondo. Tale ordine era decisamente accettato dal trio in ogni altra circostanza: se il gioco assumeva la forma del settimo cavalleggeri Davide era il comandante e io il suo secondo, se si giocava a nascondino toccava sempre a Roberto a stare “sotto” per primo e in qualche modo, utilizzando falsate regole o sporchi pretesti, si riusciva a farlo restare “sotto” almeno altre due volte.

Non ricordo come il tutto ebbe inizio. Forse un frammento di pietra da costruzione sfregato sul cemento della piattaforma rotonda dopo un po’ di pioggia che stagnava residua e la scoperta, entusiasmante, dell’acqua che si colorava di rosso! L’acqua si colorava! Il passo fu breve e il gruppo dei tre si venne a trovare, all’improvviso, immerso in un gioco meraviglioso che prevedeva, come di consueto, bella ricerca, tutto attorno, di ciò che poteva, a giusto diritto, partecipare al gioco. Ed ecco che, ancora una volta, tutto l’abbandono che ci circondava, si trasformava in una ricchezza immensa a nostra completa disposizione.

Ora il ricordo si fa più vivo: occorrevano contenitori per la raccolta dell’acqua colorata, superfici idonee a sostenere le percosse destinate a sminuzzare le pietre per farne “polvere colorante”, pietre più dure della rossa pietra da costruzione adatte ad essere usate a mo’ di mazza o martello.
Il trio si disperse nella ricerca del materiale e, in breve, la ricerca, sostenuta della grande ricchezza della fantasia, portò a risultati esaltanti: una mezza lastra di graniglia abbandonata nelle vicinanze si dimostrò un invidiabile supporto e pietre calcaree (forse provenienti da un antico acciottolato) vennero classificate come mazze perfette.
Non fu poi difficile rinvenire pezzi di bicchieri, bottigliette, bottiglie o altro vasellame di vetro destinato a contenere l’acqua colorata. E barattoli, grandi e piccoli, tegami ai quali era venuto a mancare il manico furono oggetto di ricerca affannosa e fruttuosa.

La circostanza che ci vedeva vivere ai confini della città (poco oltre, verso Bologna, le costruzioni si contavano sulle dita di una mano e quello che ora chiamiamo “l’Ospedale Vecchio” faceva bella mostra di sé ai confini dei primi orti e della campagna) ci consentiva di scorazzare liberamente tra quelli che erano i resti abbandonati delle ferite della guerra, luoghi colmi di ricchezza per la nostra fantasia.

Il culmine dell’entusiasmo, lo ricordo con un leggero brivido, quando, tra i residui di quella che era la ferrovia destinata a collegare la stazione di Imola a Borgo Tossignano (il cui tracciato proseguiva in quello che ora è il viale D’Agostino), tra cataste di travi di rovere usati a supporto delle rotaie, grossi chiodi a vite utilizzati come fermi, rinvenimmo un paio di grossi martelli senza manico: quale migliore pestello per sminuzzare, sgretolare, polverizzare le pietre rosse?
Era forse possibile ritrovarsi più ricchi così all’improvviso? Dal nulla, dall’abbandono, da quella che era una forzata incuria causa pesante miseria economica che portava facilmente all’abbandono di tutto ciò che non sembrava più utile alla difficile quotidianità, ecco il ritrovarsi ricchi di gioco, ben nutrito dalla vivace fantasia e da un aperto stato di competività.

La piattaforma abbandonata venne ripulita, si andò perfino a chiedere alla signora Emma, una seconda nonna per tutti noi, sfortunata – o forse fortunata, non so – nell’abitare al primo piano del fabbricato accanto, preciso riferimento per tutti noi nel chiedere un bicchiere d’acqua (quella di nonna Emma era sempre più fresca anche se proveniva dallo stesso acquedotto) una scopa per un’accurata pulizia di quella che erra oramai diventata per noi tre la “sede del lavoro di colorazione dell’acqua”.

Terminata l’operazione pulizia, si dette inizio alla sistemazione vera e propria del “gabinetto di lavorazione” (questa definizione venne proposta da Davide e “passò” tra le mie proteste, il gabinetto era tutt’altra cosa secondo me, e l’espressione fissa e dubbiosa di Roberto.

Inizio quindi la ricerca di contenitori per la raccolta e la conservazione del liquido colorato (ricordo nettamente che quanto già disponibile ci apparve subito insufficiente: avevamo grandi idee!) e qualcosa che potesse fungere da tavolino o qualcosa del genere.
Non ricordo come e dove, ma Roberto e io ci ritrovammo con vecchie assi di legno sorrette da tre o quattro mattoni per lato e Davide si impossessò di uno sgabello con sole tre gambe (la quarta fu rimpiazzata da ben cinque pietre) rinvenuto chissà dove.

Iniziò la lavorazione, ma come si dice in questi casi, la febbre di creazione crebbe a dismisura e ben presto il solo colore rosso non ci bastò più. Ricordo che rinvenimmo dei pezzi di gesso (uno splendido bianco!) e alcuni frammenti di una pietra verde che non colorava l’acqua se non agitando ripetutamente il tutto, ma fu ugualmente un gran successo.

Ad un certo punto ci accorgemmo che avevamo accumulato numerose pietre multicolore che non servivano per la colorazione dell’acqua e mentre rimuginavamo sul da farsi Davide se ne uscì con una delle sue: “Se non vanno bene per essere polverizzate e mischiate all’acqua, potremmo esibirle come esposizione”. Il ricordo di queste parole mi è tutt’ora nitido tanto fu il fascino che ebbero su di me, dovuto ad una sorta di profonda invidia verso il più grandicello del trio.

In seguito, non ricordo come avvenne il nuovo sviluppo, forse sospinti dalla fame di novità, le pietre colorate non riuscirono più a soddisfare le nostre brame creative e si passò allo schiacciamento, in acqua, di ogni tipologia di erba, di foglia e di fiore (le diverse colorazioni si moltiplicarono) fino alla scoperta di una pianta assai spinosa che, schiacciata in acqua, produceva un liquido verdissimo ed oleoso.
Questa meravigliosa scoperta probabilmente rappresentò l’apice del gioco, mentre, a poco a poco, quasi tutti gli altri bambini che abitavano nei dintorni iniziarono ad incuriosirsi dei nostri “affari”, a voler partecipare o a proporre nuove possibilità o combinazioni.

E forse fu proprio questo interesse a segnare la fine della nostra meravigliosa e avvincente avventura: una mattina, libero dalla colazione e dalle raccomandazioni della mamma, scesi nel cortile e vidi Davide immobile poco distante dal nostro laboratorio mentre fissava ciò che restava del nostro lavoro: durante la notte tutto era stato distrutto, tutto rovinato o disperso.

Sul fondo della conca in cemento un miscuglio di colori e di liquidi più o meno densi aveva assunto le sembianze di un’opera astratta, tipo quelle che le giri e le rigiri senza riuscire a capire quale sia il lato giusto per osservarle. Restammo, in silenzio, ad osservare la rovina del nostro giocare non so per quanto tempo, almeno fino al sopraggiungere di Roberto che se ne uscì con un “Ohoo” pieno di sconforto.
Roberto si allontanò di corsa gridando “mamma” nella ricerca disperata di aiuto e sostegno. Noi no. Noi eravamo già troppo “grandi” per ricorrere alla mamma anche se, occorre dirlo, non sapevamo certo quali pesci prendere.

Mentre mi accorgo di essere ancora lì fermo davanti alla scena del nostro intenso gioco, mi scopo a sorridere tra me e me provando un intenso e profondo senso di nostalgia.
Nostalgia per un tempo che non tornerà mai più, ma in modo particolare per quella ricchezza che avevamo scoperto dentro di noi e che ci aveva permesso di assaporare nuove avventure, di scrutare verso lontani orizzonti e di scoprire, nel gioco, le immense possibilità della fantasia anche se, al momento, non ce ne rendevamo neppure conto.

Mi guardo attorno quasi a ricercare, nascosta da qualche parte, la dolcezza del ricordo.
I due grandi fabbricati sono ancora lì, un po’ rimaneggiati ma poi neanche tanto, mentre la parte di terreno verso via Salute è stata arginata da un muro di mattoni, mentre una volta digradava verso la strada in un disordine di terra, ciottoli e erbacce.

Dall’altra parte della strada un lungo tratto delle antiche mura destinate a difendere Imola è stato abbattuto per lasciare posto a due immensi condomini che, loro pure, iniziano a denunciare il peso degli anni.

Là, verso il fondo, arcate semi-interrate sostengono alcuni metri di ciò che è rimasto della cinta difensiva della città e il livello molto più basso del terreno dall’altra parte ricorda la presenza del fossato. Il canale segue il suo corso più distante, quasi del tutto coperto e invisibile: le lavandaie non troverebbero più posto per insaponare e risciacquare le lenzuola. E poi … e poi ho lasciato l’auto in pieno sole e adesso il bagno lo faccio pure io, anche se meno fresco dell’acqua di fiume.

Prometto, a me stesso, di ritornare, di ricordare ancora, ma so già che non lo farò: rischierei di rovinare la dolcezza del ricordo.

Entro nell’abitacolo dell’auto e la camicia, letteralmente si incolla al rovente schienale, mentre immediate e copiose gocce di sudore finiscono per entrare negli occhi e impedirmi una visione corretta. Non so, forse, tra le gocce c’è pure qualche lacrima. Ma questa è una cosa che deve restare personale.

(Mauro Magnani)