Kato era partito qualche anno prima da un Paese della periferia del mondo per approdare nell’ambìto e civile continente europeo. A lui era andata bene. Il barcone stipato di vite ormai allo stremo aveva raggiunto le coste siciliane dove li avevano aiutati a sbarcare.
Non aveva idee precise su quello che voleva fare. Il destino era una macchia scura. Il primo imperativo era guadagnarsi da vivere. Kato aveva studiato. Gli piaceva leggere e da qualche tempo aveva iniziato a scrivere poesie e storie brevi.
L’Italia si presentò come un percorso a ostacoli. Sapeva che avrebbe dovuto procurarsi i documenti necessari per vivere alla luce del sole e questo era il primo scoglio da affrontare. Non gli andava di passare le giornate a nascondersi, a inventare espedienti per sbarcare il lunario.
Il forte senso di dignità, che in famiglia gli avevano trasmesso, lo aiutò a scegliere l’inizio della nuova vita senza particolari conflitti interiori. Il pensiero di tradire la fierezza e l’orgoglio delle radici lo avrebbe fatto stare molto peggio.
Era un ragazzo determinato, Kato, glielo avevano sempre riconosciuto e questa determinazione coriacea lo sostenne nel percorso lungo e impervio per procurarsi i documenti che gli servivano.
Partì per il nord con le poche risorse accantonate attraversando questo Paese lungo e stretto verso una terra almeno un po’ospitale. Anche questa volta gli andò bene. Riuscì a farsi assumere in una società che gestiva impianti di smaltimento dei rifiuti in Emilia Romagna.
Non era un gran lavoro, ma come inizio poteva andare. Bisognava accontentarsi; le condizioni con un po’ di impegno sarebbero migliorate.
Nell’impianto a cui lo avevano assegnato erano tutti stranieri. Da quelle parti nessuno vuole affidare il proprio mantenimento a un’attività che si fonda sugli scarti, sugli imballaggi e gli oggetti che una società opulenta produce in grande quantità ma di cui non si vuole occupare. Ci pensino altri a mettere le mani nella sporcizia. Un’occupazione adatta agli ultimi della Terra.
In Romagna c’erano tre impianti che selezionavano i rifiuti multi materiale (così venivano chiamati) provenienti da diverse città della regione.
Lì, fra il rumore assordante delle macchine, la polvere che saturava il capannone, inguantati fino ai gomiti e il volto coperto da mascherine, si separavano i diversi materiali recuperabili.
Plastica, lattine di alluminio, barattoli di acciaio, carta e cartoni venivano immessi nei nastri trasportatori e selezionati manualmente per essere introdotti in buche distinte. Al termine del ciclo venivano compattati da una pressa rumorosa in grosse balle, stoccate nel piazzale esterno. Si generava così la materia prima seconda che sarebbe stata conferita alle aziende per rimetterla in circolo sottoforma di nuovi prodotti.
Dai sacchi emergeva di tutto. Fra quegli scarti c’era la vita di migliaia di persone che consumavano il benessere, tifose di un progresso che aveva consegnato uno stile di vita irrinunciabile.
Non solo materia: tracce di idee, spunti, auspici, delle novità del mercato, risorse al servizio di gratifiche psicologiche, amicizie sostenute dal consumo di momenti conviviali, vita famigliare, sesso consumato più o meno frettolosamente, stili etici e un pizzico di morale.
Un’immersione totale che inevitabilmente sollecita il pensiero.
A volte affioravano anche resti umani. Provenivano da Bologna, una gamba e un braccio. Non si trattava della plastica di manichini distrutti. Erano rifiuti in carne e ossa. Kato rimase paralizzato dall’orrore, scuotendosi qualche minuto più tardi per dare l’allarme.
Difficile farsi sentire in tanto rumore. Ma di lì a poco altri testimoni della catena di lavorazione si unirono alle urla fino a quando il responsabile dell’impianto diede ordine di fermare la linea. Seguì un tempo di sospensione imprecisato.
I telefoni si scaldarono per scoprire che anche negli altri due impianti erano emersi resti umani. Forse di una donna, forse di diversa appartenenza o forse parti dello stesso corpo. I rifiuti in cui erano stati trovati avevano la medesima provenienza.
Dunque, pensò Kato, tutto aveva avuto origine da un cassonetto nel centro di Bologna o forse molto più probabilmente prima, in un luogo e in un tempo inafferrabili.
Il problema era individuare il vero inizio, per dare un senso a quella fine.
Chi aveva consumato quello scempio non aveva considerato la raccolta differenziata e si era disfatto dell’ingombro convinto di aver trovato la soluzione definitiva.
Il senso comune che differenziare non serve perché tutto comunque finisce in discarica era stato seccamente smentito.
Nei giorni seguenti la polizia visitò più volte l’impianto per fare rilievi, accertamenti e raccogliere testimonianze. Lo interrogarono ripetutamente e descrisse le circostanze del ritrovamento, aggiungendo dettagli via via che le indagini ricostruivano un quadro logico.
Un’esperienza di cui avrebbe voluto disfarsi prima possibile. Per settimane non si parlò d’altro; si viveva nel terrore che quella massa di scarti potesse riservare altre terribili sorprese. Gradualmente il clima si normalizzò. L’incessante scorrere dei nastri trasportatori e i ritmi di lavoro si portarono via le emozioni e i timori. (Continua)
(Virna Gioiellieri)