Abbiamo incontrato l’infaticabile motore delle Cucine popolari, Roberto Morgantini perché vari segnali ci hanno fatto capire che l’esperienza da episodio bolognese comincia a diventare interessante anche per altri e abbiamo quindi chiesto al nostro interlocutore se questi segnali son significativi.

Roberto Morgantini

“ E’ vero che anche altre città stanno valutando di dar vita all’esperienza delle Cucine; io credo che il modello sia esportabili salvaguardando alcune caratteristiche. Tutto deve partire dal basso, sia quello laico che quello cattolico, creando una proficua collaborazione perché non possiamo pensare che ci siano poveri laici e poveri cattolici e noi qui da tempo collaboriamo ben volentieri con un buon numero di parrocchie”.

Parli di poveri, che tipo di povertà vedi Bologna?
“Intanto, ovviamente, c’è quella classica di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, poi abbiamo la povertà di relazioni di coloro che per vari motivi non sono più in grado di costruire un rapporto con il prossimo. Quando si è troppo vecchi, senza relazioni allora non ti viene voglia di far da mangiare, allo il vivere diventa faticoso, ma anche questa è una forma di povertà. E la cucina popolare diventa insieme rifugio e punto di riferimento, luogo di socializzazione; basti pensare che in questo quartiere (la Bolognina, ndr) il 40 % delle famiglie  vede la presenza di una sola persona. Non a caso abbiamo il nome di cucina popolare (e non mensa), la menda ti da la minestra la cucina ti dà il pane e il companatico delle relazioni umane con chi è di fronte o di fianco a te”.

Quali le condizioni necessarie e sufficienti perché nasca un cucina popolare?
“Prima di tutto crederci e che il fine del progetto sia quello di costruire inclusione e non si riduca ad essere la carità. Noi costruiamo solidarietà, cioè forniamo gli strumenti per uscire dalla condizione di povertà che non è ai nostri occhi una colpa ma una condizione dalla quale si può uscire, insieme e con la solidarietà di chi sta intorno a noi. Posso fare un esempio illuminante: molti dei nostri ospiti sono poi diventati dei volontari (e il volontariato è la materia prima su cui si poggiano le cucine popolari)”.

E cosa offrono i volontari ai frequentatori delle cucine popolari?
“Il bene più prezioso, il tempo per stare insieme.”

Ritorniamo alla nascita di nuove esperienze fuori Bologna.
“Devono arrivare, ad esempio, alcuni ragazzi da Torino, a Genova, a Napoli a Ischia a Verona sono partite esperienze simili alla nostra.  Occorre il coinvolgimento di chi fruisce della cucina  perché quando si sta insieme si comincia a parlare e si stabiliscono nuove relazioni; qui mangiano architetti, dipendenti di banca che condividono con gli altri non solo il pane ma storie ed esperienze. All’inizio c’era per alcuni la paura7vergogna di andare a mangiare nella mensa dei poveri, ora questa sensazione è scomparsa e c’è invece l’orgoglio di far parte di questa grande esperienza (4 cucine, 600 pasti al giorno)”.

(m.z.)