Con questo pezzo di Francesca Filiteri inauguriamo una nuova rubrica: “Cronache globali”. L’idea è quella di ospitare contributi in parole ed immagini di ragazzi e ragazze emiliano romagnoli che per vari motivi hanno fatto la scelta di vivere al’estero, se non per sempre per periodi della loro vita.

Francesca è una giovane studentessa di Massa Lombarda (Ra) che è a Tokyo per la preparazione della sua tesi di laurea in lingua giapponese. 

Un ragazzo sulla trentina con un cappello da pescatore mi porta un matcha latte al latte d’avena, una minuscola caraffa con dello sciroppo dolcificante fatto in casa e un piattino quadrato con quattro dolcetti da assaggiare, tutti e quattro dentro a un cucchiaino.

L’uomo seduto al tavolo accanto al mio tira su col naso di tanto in tanto.
Mi sento di perdonarlo non solo perché qui è un’azione più che accettata, ma anche perché abbiamo un ventilatore sopra la testa, uno di fronte a noi e due condizionatori a destra e a sinistra.

Io non mi sono ancora arresa e continuo a torturare lo stesso fazzoletto da quasi due ore, perché se ne usassi sempre uno nuovo come le norme igieniche prescrivono, dovrei portare con me un pacco formato famiglia ogni giorno.
Il fatto è che in un totale di sette mesi in Giappone non sono mai entrata in un luogo in cui non vi fosse l’aria condizionata ed è comprensibile visto che, da giugno a settembre, l’afa e l’umidità sono tali da impedire qualsiasi attività umana, compreso il sonno.
Va da sé che uscire ed entrare in più posti nel corso della propria giornata comporti un’escursione termica che costringe a soffiarsi il naso di tanto in tanto.

A questo punto qualcuno si starà chiedendo perché io stia ancora parlando del tempo, come se non riuscissi ad andare oltre i convenevoli, ma come spiegare la centralità di questo caldo a chi in Giappone non è mai stato?
Trovo sia il caso di partire dalla lingua: atsui desu ne? Tutti parliamo del tempo, ma nell’estate giapponese questo prende direttamente il posto dei saluti al punto che, incontrando o anche solo incrociando qualcuno è molto comune esordire con “fa caldo, vero?”.

Che sia una domanda retorica è chiaro a tutti, ma ciò che io leggo tra le righe è una volontà di ricordare al prossimo che fa parte di una comunità che condivide il suo disagio e di incoraggiarsi vicendevolmente a portare a termine i propri compiti, nonostante tutto.

È la prima volta che vado in Giappone alle porte dell’autunno, perciò mi sono chiesta cosa significasse il suo arrivo per i giapponesi o, quantomeno, per gli abitanti di Tokyo.
Dopo due settimane qui posso affermarlo con certezza: a fine settembre fa ancora molto caldo.

Inauguro la mia indagine come faccio con qualsiasi cosa: con una ricerca su Google. Come era prevedibile, digitando “Giappone settembre” i risultati riguardano tutti il meteo, il turismo o entrambi.
Non è un caso: settembre a Tokyo è il mese più piovoso e il clima è ancora caldo e umido, ma è anche il mese che precede la stagione degli aceri (momiji) che, se vogliamo, sono il corrispettivo autunnale della fioritura dei ciliegi (sakura) che sancisce l’arrivo della primavera.

Non credo di sbilanciarmi nel definire l’acero rosso ugualmente suggestivo e forse perfino più maestoso. La forma delle sue foglie è sufficiente per rimanere stregati dalla minuzia con cui la natura si è dedicata a plasmare galassie di piccole stelle su ogni albero, ma quando si ammanta di quel rosso vivace nel contrasto con il verde circostante dà vita a un paesaggio mozzafiato.

Rosso è anche il lycoris radiata, un fiore non autoctono ma ormai ampiamente diffuso anche nelle aree verdi della città, che i giapponesi chiamano higanbana. Tra scienza e leggenda, le sue caratteristiche contribuiscono a conferirgli la fama di “fiore della morte”: higan in giapponese è infatti l’aldilà e Ohigan è la ricorrenza buddista che precede l’equinozio d’autunno.

Lycoris radiata

L’osservanza delle tradizioni rituali resta uno degli aspetti più interessanti di questa società, soprattutto dal punto di vista di una cultura radicata nella tradizione giudaico-cristiana come la nostra, abituata a porre la fede come condizione necessaria alla pratica religiosa.

Ciò che può risultare paradossale è che le persone che pregano le divinità dello shintoismo o del buddhismo sono molte di più di quelle che dichiarano di crederci.
Nonostante la maggior parte dei giapponesi si definisca atea, i quasi 80.000 templi buddhisti in cui è abitudine recarsi il primo giorno dell’anno non sembrano risentirne e le feste tradizionali che fanno capo ai santuari shintoisti sono numerose e partecipate anche in questo periodo dell’anno.

La ragione più solida alla base di queste usanze è il ruolo che fu dato allo shintoismo durante il periodo della restaurazione imperiale, ovvero quello di legittimare il potere dell’imperatore in quanto discendente diretto della divinità.
Infatti è anche imponendo uno schema rituale volto alla venerazione dell’imperatore, che fu possibile la costituzione di uno stato-nazione centralizzato.
Inoltre, per salvaguardare la propria immagine agli occhi delle potenze europee mantenendo la libertà di culto, il governo riformista dell’epoca separò lo “shintoismo di stato” dalle altre religioni. È forse questo uno dei motivi per cui vari aspetti della religione sono così presenti nella vita quotidiana dei giapponesi.

Passeggiando noto ancora una volta il colore rosso risaltare nel verde del cortile di una casa, ma non si tratta di una pianta, bensì di un piccolo torii. È un portale sacro che normalmente si trova all’ingresso dei santuari, ma in questo caso ha una funzione decorativa. (continua)

(Francesca Filiteri)