La scomparsa della senatrice americana Dianne Feinstein, avvenuta a 90 anni il 29 settembre scorso, è una perdita per quella buona vecchia politica americana che caratterizzava il sistema istituzionale federale degli Stati Uniti. Senatrice democratica della California per cinque mandati pari a trenta anni (in America i senatori restano in carica 6 anni, mentre i componenti della Camera dei rappresentanti solo 2), dopo essere stata per un decennio sindaco di San Francisco, città difficile e turbolenta negli ultimi decenni del Novecento.

Dianne Feinstein (in camicia bianca) e Kamala Harris nel 2017 (foto California National Guard da Wikipedia)

Feinstein, cresciuta in una famiglia di origine ebraico-polacca, si era affermata nella più importante metropoli californiana grazie alla capacità di gestire con efficacia la politica della città, dove ha lasciato un’impronta personale, rivelando un carattere all’epoca non comune tra le donne impegnate in pubblico.

Ma la sua attività non è stata mai improntata a uno spettacolare femminismo né a quel radicalismo astratto che talvolta accompagna chi, come Feinstein, ha un deciso orientamento liberale o radicale.

Dopo la stagione da sindaca, le sue battaglie politiche in Senato, dove fu decana a lungo rispettata dai colleghi dei due schieramenti, furono sempre chiare. Rifiuto del traffico indiscriminato delle armi e divieto di quelle d’assalto, chiusura delle prigioni straordinarie per terroristi (Guantanamo) e divieto della tortura sui prigionieri, diritti civili per tutti, alcune delle sue battaglie.

La sua concezione della dialettica partitica si arrestava laddove doveva intervenire la vecchia pratica della politica americana: il rispetto per il bipartitismo sulle questioni nazionali che sono quelle che competono al Senato, il luogo che rappresenta l’unione nazionale degli Stati, non le divisioni partigiane della popolazione. Il Senato infatti è composto da due membri per ognuno dei 50 Stati americani, indipendentemente dal numero degli abitanti di ciascuno, mentre la Camera – già dal nome – rappresenta i singoli distretti e i loro abitanti.

Prima donna nelle più alte posizioni istituzionali (prima e insieme all’altra deputata Nancy Pelosi), la senatrice californiana rifiutò sempre quelle estremizzazioni sulle questioni di genere così diffuse oggi come testimoniano i suoi atteggiamenti sulla questione omosessuale: infatti dapprima sostenne semplicemente i diritti dei gay in una città, come San Francisco, particolarmente sensibile alla questione, ma arrestandosi di fronte alle richieste di legalizzare il matrimonio. Poi allargò il suo orizzonte, senza tuttavia fare il verso alla cultura del genere che voleva imporsi nei sistemi educativi locali e statali, creando una forte reazione delle parti più aggressive del mondo conservatore e tradizionalista.

Si discute molto, a ragione, della decadenza attuale della politica americana, di cui sono la spia evidente le probabili candidature presidenziali di Joe Biden e Donald Trump, per ragioni in parte connesse con l’età (nei commenti più ruspanti definiti “il vecchio” e “il truffatore”).

Perciò ricordiamo la senatrice Feinstein come uno degli ultimi esempi di quella politica americana che molto ha insegnato a tutto l’Occidente a partire, due secoli fa, da Alexis de Tocqueville nella sua opera più importante, La democrazia in America, dove affermò che la rivoluzione francese e quella americana non hanno aspetti in comune, in quanto da quella francese scaturiscono violenza e terrore, mentre da quella americana la libertà.

(Tiziano Conti)