Credo di arrivare tardi a vedere la pluripremiata pellicola di Matteo Garrone, dopo averne già troppo letto, sentito parlare, e quasi respirato l’atmosfera attraverso i racconti degli amici che mi hanno preceduta al cinema. Ma dopo i primi venti minuti di proiezione capisco di trovarmi di fronte a qualcosa di completamente diverso da ciò che mi aspettavo. Perché Io capitano è – sì – un film-denuncia, un crudo e antiretorico documentario, ma allo stesso è una fiaba, un racconto omerico, un romanzo d’avventura degno della penna di Salgari.
Il lungometraggio di Garrone, come ormai risaputo, mette in scena la spietata odissea di due adolescenti senegalesi che per inseguire la loro ingenua chimera decidono di raggiungere l’Europa sfidando il deserto, il mare e la sorte. Raccontare il viaggio, un tema così (ingiustamente) ideologizzato, divisivo e polarizzante nel sentire attuale del nostro Paese, è certamente un’impresa ardua e il rischio di cedere alle lusinghe di facili e melense narrazioni, fini a sé stesse, è dietro l’angolo.
Garrone, per evitare questo insperato effetto, chiede aiuto a Pinocchio, decidendo di utilizzare archetipi collodiani per seguire Seydou e Moussa nelle loro peripezie, pur mantenendo sempre la macchina da presa ferma sul racconto oggettivo dell’Olocausto dei nostri tempi. Così Seydou, proprio come il celeberrimo burattino, si fa convincere dall’amico Lucignolo a seguirlo nel Paese dei Balocchi nonostante le parole del Grillo Parlante che nel mercato di una favolistica e coloratissima Dakar, molto somigliante al desertico paese natale di Anakin Skywalker, avverte i nostri giovani eroi sui pericoli e sulle insidie del Viaggio che li attende.
Partono, mentendo alle famiglie, e il loro sogno incontaminato si trasforma in un incubo che sembra non finire mai, in cui figure grottesche e crudeli si susseguono in un carosello dell’orrore. Insomma, sulla loro strada incontrano molti Gatti e molte Volpi, e solo qualche timida e isolata Fata dai capelli turchini.
La scelta di Garrone – non solo regista ma anche autore della sceneggiatura insieme a Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri – è di rifuggire dai luoghi comuni della stampa e della politica anche per quanto riguarda la rappresentazione della terra d’origine dei protagonisti, che non è un luogo di dolore dilaniato dalla guerra ma un Senegal, seppur povero, dignitoso, innocente e forse persino felice proprio come Seydou e Moussa all’inizio della loro avventura.
Che più si allontanano dalla loro terra, più si allontanano dall’innocenza dell’infanzia. Rincorrendo l’Eden, incontrano l’inferno. Ma come in ogni avventura di formazione che si rispetti, degna di Salgari appunto, nell’orrore non soccombono da divengono adulti (qualsiasi sia il significato che vogliamo attribuire a questa parola).
Anche il cast è azzeccato. Il protagonista in particolare è alquanto convincente nella sua spontaneità, tanto che a Venezia si è guadagnato il Premio Mastroianni. La fotografia, satura e intensa come in quasi tutte le pellicole del regista romano, ci trasporta in un mondo onirico di sabbia e di polvere che omaggia i paesaggi sospesi e surreali de Il deserto dei Tartari (di Valerio Zurlini, 1976).
Matteo Garrone, ispirandosi ai racconti di chi ha davvero vissuto quel Viaggio sulla propria pelle, ci regala dunque uno straordinario racconto immaginifico ma più realistico di un documentario, capace di far commuovere il pubblico in sala senza però mai scadere in banali sentimentalismi. Non ci resta che incrociare le dita e sperare che Io Capitano il prossimo marzo possa splendere, come merita.
(Marta Taroni)