La feroce aggressione di Hamas a Gaza ha modificato la carta geopolitica globale, così come era stata determinata dalla guerra in Ucraina, che è ancora di là dall’essere in qualche modo composta.
In poche ore tutte le pedine hanno cambiato posto sulla scacchiera. Quello schieramento dei cosiddetti produttori di materie prime e lavoro, che frettolosamente era stato considerato il nuovo fronte anti occidentale, deve ripensarsi alla luce di quanto accaduto ai confini di Israele.
Sauditi e Iraniani che parevano, in nome di un diffuso senso anti americano, persino ritrovare temi di convergenza, placando la contrapposizione che risale al Medioevo, si ritrovano su fronti opposti. Le due principali nazioni dello schieramento avverso agli Usa, Cina e Russia, ora tacciono imbarazzate. Ognuno dei due sa di avere tangibili legami con Tel Aviv, sia economici che sociali.
La Turchia, che aveva trovato modo di scivolare fra le contraddizioni delle sue buone intese con Israele e le rivendicazioni islamiche, cerca ora una ricollocazione in un quadro in cui bisogna decidere da quale parte stare.
L’intero mondo arabo, che pure aveva dato segnali di convergenza con le posizioni del nuovo fronte in pacificazione tra Arabia Saudita ed Israele, ora si trova uno scenario incandescente: la vicenda siriana, la precarietà del Libano, il condominio con gli sciiti, ritornano a essere ferite aperte.
Al tempo stesso persino il governo israeliano, che pure nei mesi scorsi sembrava trovare comportamenti meno tradizionalmente legati alle strategie della Casa Bianca, anche per una istintiva affinità di Netanyahu con Trump, ora deve inevitabilmente tornare a essere il satellite di lusso degli Usa.
In questo scacchiere l’anziano Biden potrebbe ritrovare un’insperata vitalità. La sua amministrazione, infatti, si trova ora a rinnovare l’istintiva partnership con Israele, tornando a essere il tutore dell’intera area medio orientale.
Una scelta che porterebbe l’opinione pubblica americana a uscire dalle sue tentazioni isolazioniste e a sostenere un nuovo protagonismo atlantico in chiave globale, che collegherebbe in strettamente i due focolai di guerra, l’Ucraina e Tel Aviv, spegnendo sul nascere la campagna per il disimpegno, che la destra oltranzista repubblicana aveva lanciato in vista delle prossime presidenziali.
Tra l’altro il voto delle comunità ebraiche in America è sempre stato molto importante.
Ma è proprio la figura di Trump, il suo posizionamento sovranista, che viene messa in crisi da questa nuova situazione internazionale. Innanzitutto per il facile parallelismo con il premier israeliano: l’impreparazione militare e delle intelligence con la stella di David è collegata a un governo estremista che ha spezzato lo zoccolo duro dell’unità culturale ed etica del popolo israeliano.
Un esempio che riporta gli americani a riflettere sulle conseguenza di una scelta di rottura e di contrapposizione, che un’eventuale nuova presidenza Trump comporterebbe con larga parte della nazione a stelle e strisce.
Ma è più in generale la necessità di un nuovo ordine globale, in cui la presenza sia militare che politica della super potenza occidentale renderebbe fragile la mobilitazione della destra in nome di America first.
In questo quadro sarebbe essenziale una presenza europea, che potrebbe dare un carattere meno militare al ritorno dell’occidente sulla scena, assorbendo in una rete di relazioni sia la Turchia che i paesi arabi e, soprattutto, il continente africano alla ricerca di nuova stabilità.
Una strategia che potrebbe anche dare senso a una sinistra europea che troverebbe un ambiente più consono a una nuova forma di globalizzazione solidale, togliendo spazio alle proposte sovraniste: anche domenica in Germania l’avanzata più grande è stata quella del partito di estrema destra.
Il tintinnio delle spade ha necessità di essere affievolito dal rumore dei costruttori di umanità.
(Tiziano Conti)