Appuntamento mensile con “Profili”, la rubrica letteraria, curata da Andrea Pagani. Ogni ultima domenica di ogni mese, l’autore propone il profilo di un grande artista della letteratura, della pittura, del fumetto, del cinema, della storia. Un appuntamento imperdibile.
C’è un dettaglio significativo ed assai emblematico nel celebre dipinto di Caravaggio La vocazione di San Matteo (1599-1600, Roma, San Luigi dei Francesi, cappella Contarelli), un dettaglio in apparenza minimo ma che in verità riveste un ruolo decisivo e fondamentale per rivelare la rivoluzionaria poetica del pittore.
Nella sua tela, Caravaggio trascrive pittoricamente il testo evangelico della vocazione di San Matteo (la cui fonte principale è il Vangelo di San Marco e la Leggenda aurea di Jacopo da Varazze), sovrapponendo e aggiungendo un particolare rilevante.
L’attenzione di Caravaggio, infatti, è centrata sulla mani di Matteo e di Cristo, nel senso che la vocazione di Matteo, ovvero la chiamata di Cristo, è veicolata dalla mano di Cristo che indica il santo.
Tuttavia se nella tradizione liturgica e se nel modello pittorico a cui Caravaggio si rifà, ossia la Creazione di Adamo di Michelangelo (1508-1512, Città del Vaticano, Cappella Sistina), il santo o Adamo risponde alla chiamata con dedizione, trasporto, sicurezza, affidandosi allo spirito cristiano, al contrario nel dipinto di Caravaggio la risposta è diversa. Matteo indica se stesso, non si protende verso Cristo (o nel caso di Adamo verso Dio).
In altre parole, Caravaggio intende tematizzare la risposta oltre che la chiamata, sottolineando il dubbio, l’insicurezza, la libertà di chi riceve il richiamo.
Così, uno degli elementi fondamentali della tela di Caravaggio, e quindi del tema che egli intende trasmettere, è quello del libero arbitrio, o ancor meglio del rapporto fra libertà e grazia.
Il simbolo della mano che s’interroga, che si pone sul petto dell’uomo (un uomo semplice, rappresentato in una locanda spoglia, fra umili compagni), è assunto in un contesto nuovo, nell’ambito dell’atmosfera della riforma protestante, in un clima di problematica e complessa riflessione sul rapporto fra l’uomo e la divinità.
La genialità dell’opera di Caravaggio sta esattamente in questo snodo dialettico: una narrazione umana (il grande critico Roberto Longhi parlò di “realismo feriale” dei soggetti di Caravaggio), che diviene rappresentazione drammatica nell’idea dell’hic et nunc, ora e qui, la vita quotidiana colta nel suo semplice umile divenire.
Nella tela, infatti, Cristo e san Pietro, sulla destra, fanno il loro ingresso nel buio e spoglio ufficio del gabelliere, Matteo, e vi trovano cinque uomini, raccolti attorno a un tavolo, vicino a una parete nuda alleggerita da un’unica finestra, e sul tavolo ci sono monete e un borsellino, segno che è in corso una transazione. Una situazione di un’assoluta modestia e quotidianità, forse persino un po’ meschina perché tutta concentrata sul conto dei denari e della riscossione di imposte.
Il racconto biblico, quindi, viene umanizzato, risolto in una dimensione di “feriale realismo”, dove Cristo fissa un misero esattore delle tasse con sguardo ipnotico, accentuato dalla linea di luce che simboleggia la chiamata cristiana. In tal senso, Matteo e i suoi compari potrebbero essere comuni giocatori all’osteria, bari, uomini di malaffare.
Questo è il significato profondo del messaggio cristiano, o meglio del mistero del soprannaturale, che Caravaggio più di qualsiasi altro artista ha saputo tradurre sulla tela: l’irresolubile conflitto fra l’occasione del quotidiano e la luce della fede.
(Andrea Pagani)