Sono le 9.52 e davanti a me ci sono due file di donne di varie età. Decido di non mettermi in coda, preferisco attendere a qualche passo di distanza.
In quasi tutti i mestieri che ho svolto in passato, l’orario di apertura rappresentava un momento strano per me: sebbene da un lato comprenda che un flusso consistente di clienti sia nell’interesse di tutti, mi è impossibile nascondere la nota di fastidio che scaturisce nel constatare che fuori, pur senza manifestare impazienza, qualcuno sta aspettando che le porte si aprano.

Confido dunque che la lettrice o il lettore che abbia lavorato come dipendente nella rivendita o nella ristorazione comprenda questo sentimento e, di conseguenza, la mia titubanza di cliente. Le porte di vetro del centro commerciale Kirarina permettono di intravedere le commesse indaffarate negli ultimi minuti prima dell’apertura.

L’ironia vuole che, proprio sulle teste delle persone in fila, decine di pendolari stiano facendo lo stesso al binario. Mi trovo nella stazione ferroviaria del quartiere di Kichijoji, una delle zone di Tokyo in cui la qualità della vita è più alta in termini di servizi, negozi, attività culturali e artistiche.

Kirarina è uno dei tanti centri commerciali costruiti all’interno di grandi stazioni, anche se osservandolo dall’esterno si potrebbe dire che “divora” la stazione con i suoi nove piani, che spicca fiero e sprezzante del pericolo del commercio online.

La scarsità di luce naturale che caratterizza i centri commerciali mi ha sempre impedito di poter definire positive le mie esperienze al loro interno, ma quelli giapponesi sono distinti da elementi che infondono un certo grado di conforto.

Prima fra tutti l’attenzione alle necessità delle famiglie con bambini, che va ben oltre le fatiscenti giostre a gettoni o i non-luoghi dedicati al gioco e quasi sempre deserti. I bagni sono sempre equipaggiati con tutto ciò che può servire a un genitore e a un bambino, così come lo sono i luoghi di ristoro.


Queste caratteristiche rispecchiano gli sforzi del governo di rendere quanto più agevole possibile la vita dei genitori per invertire la tendenza che vede le nascite crollare e l’età media aumentare. I bagni in Giappone sono quasi tutti ancora divisi per genere (tranne quelli di Starbucks) e quelli delle donne sono spesso provvisti di uno spazio dedicato al trucco.

Altre curiosità riguardano i negozi di abbigliamento che spesso, nel rispetto dell’usanza di togliere le scarpe quando si calpesta un pavimento pulito, richiedono di salire scalzi sul rilievo in legno all’interno dei camerini.


Alle donne che provano maglie e abiti è anche richiesto di indossare delle buste di un tessuto semitrasparente in testa per evitare che il colletto si sporchi di trucco mentre i capi vengono infilati e sfilati.

Quando si fanno acquisti in Giappone è bene sapere che, nonostante le taglie abbiano lo stesso nome, corrispondono quasi sempre a misure più piccole (una persona abituata alla taglia S in Europa, probabilmente dovrà cercare una M o una L).

I centri commerciali per come li conosciamo oggi nacquero negli anni cinquanta quando l’architetto austriaco Viktor Grünbaum, rifugiatosi a New York nel 1938 in quanto ebreo e fervente socialista di sinistra, si trasferì a Los Angeles e inorridì dinanzi ai negozi nelle periferie californiane e propose di pianificare una disposizione che rendesse l’esperienza di shopping più simile a un giro in centro.

I centri commerciali si sono diffusi prima negli Stati Uniti rispetto al resto del mondo e restano emblematici del capitalismo consumistico americano del secondo dopoguerra, ma sono gli anni novanta i più segnati da quella che in inglese è definita “mall culture” e che subisce da anni la minaccia dello shopping online.

Il sogno utopico di Grünbaum si era rivelato infatti l’ennesima manifestazione della suburbanizzazione già in corso da decenni, ma aveva anche contribuito alla nascita di un tema che dominerà l’immaginario degli adolescenti degli anni ottanta e novanta e quello del cinema hollywoodiano.

Oggi assistiamo al loro lento e graduale declino in quasi tutto il mondo. Negli USA molti di essi sono chiusi e, nel pieno del dibattito su cosa fare di quelle enormi strutture fantasma, in California alcuni sono stati addirittura riconvertiti in complessi di abitazioni.

Il Giappone del miracolo economico del dopoguerra ha visto l’emergere di una nuova classe media, caratterizzata da un maggiore tasso di scolarizzazione e di occupazione e un conseguente aumento dei consumi, incentivati anche dalla propaganda americana.

Tra gli anni sessanta e settanta, lo stile di vita della classe media divenne lo standard per buona parte della popolazione e la condizione più comune era potersi permettere molti beni di consumo, ma non una casa in cui metterli, per via dell’apprezzamento dei beni immobiliari.

Riviste, televisione e cataloghi aggiornavano i giovani giapponesi sulle nuove tendenze e i grandi magazzini e i centri commerciali aumentavano in virtù di questa crescente domanda e guidavano i loro acquisti.
Questo fenomeno sembra perdurare nonostante lo scoppio della bolla speculativa e le sue conseguenze, gli effetti della grande recessione e infine l’avvento dello shopping online.

Non si può certo dire che il Giappone sia estraneo al passaggio alle piattaforme digitali, ma allora come mai non se ne avverte l’effetto? Per quanto riguarda i centri commerciali e i grandi magazzini dei centri urbani, l’aspetto più evidente è la posizione.

Sebbene la periferia consenta la costruzione di ampi parcheggi, dunque la possibilità di acquisti più voluminosi per chi possiede un’auto, la prossimità costituisce un incentivo spesso più efficace. Un altro elemento che ho potuto osservare è il fatto che spesso si sfrutti la presenza di luoghi che esercitano un’attrattiva basata sul bisogno, come le catene più frequentate di café o di family restaurant in cui la gente consuma per poter restare seduta a lavorare o studiare, posizionandoli in modo da costringere gli avventori a passare per alcuni negozi prima di raggiungerli.

I centri commerciali di Tokyo sono anche visibilmente conformi alla zona in cui si trovano, sia nell’aspetto esterno sia nella scelta degli esercizi al suo interno, perciò in un quartiere prevalentemente residenziale e ricco difficilmente si troveranno catene di fast fashion e negozi di gadget, mentre al contrario in luoghi turistici come il Tokyo Solamachi ai piedi dello Skytree o il Magnet di Shibuya spiccano Pokémon Center, Jump Shop (dedicato ai fumetti Jump Comics come One Piece), Hello Kitty e affini.

Pochi centri commerciali vantano una storia affascinante quanto quella del Red Brick Warehouse di Yokohama. Fedelmente al proprio nome, nasce come un complesso di magazzini portuali costruiti con mattoni rossi all’inizio del Novecento e ne conserva tuttora l’aspetto.

La solida struttura interna lo ha in parte preservato quando nel 1923 il Grande terremoto del Kantō radeva al suolo la regione omonima e, dopo anni di riparazioni, nel 1945 l’intero complesso fu occupato dalle forze militari statunitensi e lo rimase per oltre un decennio. Anni di importanti ristrutturazioni lo hanno infine reso, agli inizi del nuovo millennio, uno dei luoghi di attrattiva più conosciuti a Yokohama.

(Francesca Filiteri)