Franz Beckenbauer: per definire il suo stato di leggenda, in Germania dicevano che fosse “sotto Dio ma sopra il Cancelliere”.
Il 17 giugno 1970 allo stadio Azteca di Città del Messico venne disputata Italia-Germania Ovest, la semifinale dei Mondiali di calcio di quell’anno, ora considerata la “partita del secolo”. Il capitano della Germania Ovest (il muro era ancora in piedi) era Franz Beckenbauer, morto lunedì a 78 anni: La partita finì 4 a 3 per l’Italia, che poi in finale venne battuta dal Brasile.
Tuttavia, è ricordata anche per la grande determinazione mostrata da Beckenbauer, che giocò il finale dei tempi regolamentari e tutti i supplementari con un braccio fasciato. Nonostante l’infortunio, Beckenbauer decise di rimanere in campo perché la Germania Ovest aveva infatti esaurito i cambi, e avrebbe dovuto giocare in dieci la parte finale del secondo tempo e tutti i supplementari.
Il ricordo di quel giocatore impareggiabile, palla tra i piedi e testa alta, mi ha rimandato a quella notte e al ricordo di essa che avevo scritto diversi anni fa.
Nel 1970 avevo 17 anni: frequentavo la scuola superiore, mi appassionai a quel grande fermento – pur con tutti i limiti propri di ogni umana avventura – che è stato il Movimento studentesco. Volevamo mettere in discussione tutto: scuola, genitori, famiglia, amicizie. A volte il desiderio di libertà, di dare significato, era sopraffatto da comportamenti arroganti, mistificatori di quell’anelito di giustizia che sentivamo dentro.
Frequentavo anche Gioventù studentesca e questo, fortunatamente, ha smussato molti di quegli spigoli. Anche il rapporto con i miei genitori, mio padre in particolare, ne risentì.
Era un uomo semplice. Il giorno in cui egli compì vent’anni era sul fronte di guerra nel deserto del Sahara: al termine della prigionia (con fame, stenti, lavoro duro) era tornato a casa a 26 anni, i genitori morti, una vita da costruire in una situazione complessivamente difficile qual è stato il dopoguerra nel nostro paese.
Allora queste cose (i suoi sacrifici, il bene che mi voleva, ovviamente secondo la sua sensibilità) io non le consideravo molto e non vedevo in lui la fatica di costruire qualcosa di buono e positivo per me.
Una cosa mi ricordo bene di quegli anni: che rimanemmo alzati insieme – noi due soli – a vedere quella partita in TV, tra mezzanotte e le due del giorno dopo. Gioimmo entrambi al risultato finale: se penso a un momento dolce e tenero nella mia giovinezza insieme a mio padre (che ci ha lasciato da quasi quaranta anni) il ricordo va a quella partita.
Abbiamo attraversato la voglia di libertà, la difficoltà di viverla, il bisogno di andare all’attacco con gioia e senza arroganza… e ora siamo un po’ soli.
Spero che a mia figlia rimangano – verso suo padre – meno rimpianti di quelli che mi porto dentro io.
(Tiziano Conti)